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Persona y Bioética

Print version ISSN 0123-3122

pers.bioét. vol.13 no.2 Chia July/Dec. 2009

 


MODELLI Dl SVILUPPO, MODELLI Dl CURA:
UNA LETTURA ANTROPOLOGICA DELL'AIDS

María Teresa Russo1

1 PhD en Filosofía. Profesora de Antropología, Departamento de Filosofía y Ética Aplicada, Universidad "Campus Bio-Médico", Roma, Italia.
m.russo@unicampus.it

FECHA DE RECEPCIÓN: 24-05-2009 - FECHA DE ACEPTACIÓN: 2-11-2009



RIASSUNTO

La malattia é ámbito in cui l'interazione fra natura e cultura sorge con particolare evidenza. Non é possibile capire una malattia attraverso un paradigma esclusivamente naturalista, ma neppure utilizzando un punto di vista culturista.

Promuovere la salute, significa promuovere anche lo sviluppo, perché suppone modificare anche lo stile di vita. Se questo è vero per i paesi sviluppati, lo é ancor di più per i paesi in via di sviluppo. Ogni modello di sviluppo suppone un quadro antropologico di riferimento, che orienti gli interventi in un senso o in un altro. Perciò, è indispensabile una valutazione del modello adottato, per giudicare in maniera critica le strategie che i paesi occidentals avviano in Africa nella lotta contro il SIDA.

PAROLE CHIAVE: SIDA, antropologia, sviluppo, HIV.



RESUMEN

Modelos de desarrollo, modelos de cuidado: una lectura antropológica del SIDA

La enfermedad es un ámbito donde la interacción entre naturaleza y cultura aparece con especial evidencia. No es posible comprender ninguna enfermedad a través de un paradigma exclusivamente naturalista, pero tampoco es posible utilizando un enfoque culturalista.

Promover la salud significa siempre promover el desarrollo, porque supone modificar los estilos de vida. Si esto es verdad para los países desarrollados, lo es aún más para los países en vías de desarrollo. Todo modelo de desarrollo supone un marco antropológico de referencia, que orienta las intervenciones en una u otra dirección. Es indispensable una evaluación del modelo adoptado, para juzgar críticamente las estrategias que los países occidentales ponen en marcha en África en la lucha contra el SIDA.

PALABRAS CLAVE: SIDA, antropología, desarrollo, HIV



ABSTRACT

Illness is one area where interaction between nature and culture becomes particularly evident. It is impossible to understand any illness through an exclusively naturalistic approach, but neither is it possible to understand an illness on the basis of a solely cultural approach.

Promoting health always means promoting development, as it assumes a change in lifestyles. If this is true for the developed countries, it is even more so for the developing countries. Every development model presupposes an anthropological frame of reference that guides intervention in one direction or another. A critical evaluation of the accepted model is indispensable to a critical assessment of the health strategies adopted by the Western world to combat AIDS in Africa.

KEY WORDS: AIDS, anthropology, development, HIV



RESUMO

A doença é um campo onde a interação entre natureza e cultura é muito evidente. Para compreender as doenças, não basta recorrer isoladamente ao paradigma naturista ou ao paradigma cultural. Fomentar a saúde quer dizer fomentar o desenvolvimento, já que é necessário mudar o estilo de vida. Se esta premissa é certa nos países desenvolvidos, com maior razão deve ser certa nos países em desenvolvimento. Todo modelo de desenvolvimento exige um quadro antropológico de referencia para orientar as intervenções em uma ou outra direção. Para julgar criticamente as estratégias que os países ocidentais estabelecem na África para lutar contra o AIDS, é necessário avaliar o modelo adotado.

PALAVRAS-CHAVE: AIDS, antropologia, desenvolvimento, HIV



MALATTIA INDIVIDÚALE E MALATTIA DEL SECÓLO

Contrariamente a quanto ha affermato Susan Sontag2, l'esperienza conferma che ogni malattia diventa necessariamente una metafora. Lungi dal rappresentare un semplice fatto o evento, essa assume sempre una carica simbolica e spinge la persona che ne soffre alla ricerca di un significato ulteriore. La domanda decisiva -"perché proprio adesso?" non chiama in causa solo fattori biologici, ma anche sociali e culturali. Se poi l'interrogativo da generale diventa personale -"perché proprio a me?"-, finisce per assumere le caratteristiche di una vera e propria indagine esistenziale. Se dunque la malattia è innegabilmente anche un fatto, è comunque un fatto che interpella e chiede ragione di sé.

Nel caso di un'epidemia, il processo di metaforizzare si fa più ampio, perché a sentirsi interpellata è, in un certo senso, un'intera società: sono state elaborate le immagini del flagello divino o del nemico che propaga il male, perpoter formulare una risposta plausibile o almeno rassicurante. In questo caso, l'epidemia è associata sempre anche all'idea di una svolta epocale segnata da profezie millenaristiche, al tramonto di una fase storica o all'eclissi di un orizzonte valoriale. Il mal du siècle non è solo quello che appartiene a un determinato secolo, nel senso che ha luogo in esso, ma anche quello che ne forma parte, perché lo contrassegna come secolo malato. Si assiste cosï ad un paradosso: quanti più "medici" -nel senso di scrittori, filosofi, artisti- accorrono al capezzale del secolo malato, per riconoscerne il male e descriverlo, tanto è più facile esorcizzarlo, perché se ne possiede il significato e dunque anche il percorso per la guarigione.

Il SIDA, invece, viene a confondere le carte. La sua stranezza sta nel fatto che esso colpisce in ugual misura mondi cosï diversi tra loro, che è impossibile accomunare in un unico orizzonte. Se è difficile far ricorso ad un'immagine di decadenza per un mondo come quello sviluppato, dove la medicina e la tecnica fanno continuamente passi avanti, è altrettanto arduo evocarla per i Paesi in via di sviluppo, dove la parabola del progresso non è neppure cominciata.

Eppure, strano a dirsi, solo da certe condizioni determinate dal progresso poteva originarsi il SIDA. Come nota lo storico Grmek: "Un'epidemia disastrosa di questo genere non avrebbe potuto prodursi prima dell'attuale incrociarsi delle popolazioni, prima della liberalizzazione dei costumi e soprattutto prima che i progressi della medicina moderna realizzassero il controllo della maggior parte delle malattie infettive gravi e introducessero le tecniche delle iniezioni endovenose e della trasfusione del sangue"3. Ciò accresce la divaricazione. Mentre nel mondo sviluppato, il SIDA è, seppure non nella totalità dei casi, la conseguenza di una cultura che sperimenta le estreme conseguenze della liberta, in Africa invece, esso rappresenta, in un certo senso, il risultato di una situazione di carenza di liberta, dove l'assenza d'igiene, la vulnerabilità dell'infanzia e la disuguaglianza di genere contribuiscono ad una crisi in cui il peso più rilevante è dato dall'influenza dei modelli occidentali di vita. In occidente, il SIDA appare come il prezzo indesiderato di una cultura cosiddetta "del progresso", che è stata oggetto di scelta; in Africa, risulta come effetto di una cultura importata dall'esterno o da processi che sono il risultato di emarginazione e di povertà, come la massiccia urbanizzazione e la conseguente corruzione dei costumi sessuali.

Vi è ancora un altro elemento: il SIDA è sfuggente e indefinibile anche per l'impossibilità di considerarlo come un ulteriore anello nella catena delle epidemie tradizionali, riconoscibili da un corteo di sintomi, che configurano anche una facies indicabile. L'immunodeficienza provocata dal virus HIV non consiste, infatti, in una malattia specifica, ma nella possibilita di contrarre diverse malattie.

Una singolare afasia accompagna dunque questo male. Si stenta a metaforizzarlo, proprio per la sua singolare estraneità. Da un lato, è come se appartenesse più alla scienza medica che al malato stesso, per il fatto che solo accurate analisi di laboratorio lo rivelano. Inoltre, esso viene contagiato proprio attraverso quei fluidi tradizionalmente legati alla vita -il latte, lo sperma, il sangue- e non alla morte4, per di più attraverso relazioni di per sé orientate all'unione e alla trasmissione della vita -quella sessuale, dell'allattamento, della trasfusione-, nelle quali l'altro è qualcuno che si riconosce come prossimo e simile a sé e non un estraneo, portatore di morte.

Forse è proprio questo disagio interpretativo a divaricare tanto i due mondi nella lotta contro il SIDA. In quello sviluppato, risulta impossibile esorcizzarlo attraverso una metafora, a causa della perdita dei significati; nell'altro non si accetta di ridurlo ad un orizzonte esclusivamente scientifico, a causa della presenza di una forte capacità simbolica. Se poi si tiene conto che è il primo mondo ad affrontare l'impresa di combattere il male nel secondo, si comprende perché è cosï difficile il dialogo: l'afasia si trasforma necessariamente in incomunicabilità.

In una società altamente tecnicizzata come quella occidentale, la capacità simbolica sembra scomparsa: l'accelerazione, i criteri di utilità e di efficienza, il consumo immediato di ciò che viene usato, la ricerca di emozioni forti, impediscono sempre di più atteggiamenti come lo stupore, la contemplazione e il senso del sacro.

Quel fenomeno che M. Weber ha indicato con il termine disincanto, se è stato innegabilmente per l'uomo occidentale un fattore di emancipazione da antiche paure e superstizioni, ha anche originato un impoverimento, un'incapacità di riconoscere un significato negli eventi naturali che vada al di là dell'immediatamente percepibile e misurabile. É difficile, allora, o addirittura impossibile attribuire senso ad eventi come la malattia, il dolore, la morte, se essi sono trattati in modo sempre più tecnico. Se il corpo è una macchina che si guasta, il simbolismo si limiterà al piano funzionale: quel congegno, essendo guasto, non potrà svolgere quella funzione determinata per la quale è stato costruito. Non vi è altro da fare che comprendere il motivo del guasto, ossia la causalità materiale. Il disincanto, dissolvendo qualsiasi prospettiva sacrale, ha provocato un restringimento degli orizzonti, finendo per far ripiegare l'uomo su se stesso, in un individualismo dove il benessere personale, apparentemente assicurato dall'inarrestabile progresso tecnico, diventa l'unico orizzonte di senso.

Dilaga allora un simbolismo suppletorio, che tende a caricare di significato i fatti tecnici, attribuendovi quel valore un tempo riservato ad altri simboli. È il senso dell'infinito o del sacro che non trova più un orizzonte metafisico al quale rivolgersi e cerca sicurezze nell'orizzonte tecnico. La nuova simbologia degli screening è parte di un surrogato di religione che ha i suoi sacerdoti negli scienziati e nei medici5.

Non appare cosï la situazione nei Paesi in via di sviluppo, come ad esempio quelli africani. Non ancora vittima del "disincanto" occidentale, l'africano proietta sulla malattia una notevole carica simbolica: la forte concezione della divinità, la costante presenza del rito, l'inseparabilità delle nozioni di salute e di cura da concezioni cosmiche, che rendono la malattia qualcosa di più che una disfunzione o un'anomalia e la salute qualcosa di diverso dallo "stato di completo benessere"6.

La reazione dei due mondi all'epidemia è dunque solo in apparenza simile, lo stigma provoca in entrambi ansia e timore, la distinzione tra i "puri" e gli "impuri". Ma in occidente, a turbare le coscienze è soprattutto la consapevolezza del limite di fronte a cui si è impotenti; ad essere ingombrante è la presenza improvvisa della morte in una società che ha cercato di rimuoverla; è l'impotenza della scienza a produrre insicurezza. La meta auspicata è dunque il progresso della medicina, che per alcuni dovrebbe significare l'assicurazione a poter praticare il proprio stile di vita senza conseguenze. L'occidente guarda con aspettativa nella direzione della scienza e attende la soluzione dall'impiego dei mezzi tecnici, che si spera siano sempre più efficaci. In caso contrario, in nome della libertà si invoca il diritto a morire con dignità, come estremo atto di autodeterminazione.

In Africa, lo stigma è soprattutto vergogna, senso di espulsione, paura del contagio. Si scompare innanzitutto moralmente: il malato di SIDA muore due volte, perché ancor prima di morire biologicamente, è morto socialmente. Nella tradizione africana l'attività sessuale ha una sua sacralità e l'istituzione familiare possiede un valore fondamentale7. Come è stato notato, esistono dei tabù che incoraggiano il controllo di sé in materia di sessualità e vi sono tradizioni contrarie alle relazioni sessuali durante la gravidanza e l'allattamento e in caso di adulterio; in molti gruppi etnici, la verginità prima del matrimonio è obbligatoria. Osserva M. Czerny, esperto osservatore del fenomeno del SIDA in Africa: "Nelle società tradizionali, un certo numero di pratiche aiutava a promuovere un buon comportamento e a mantenere la fedeltà e l'integrità nel matrimonio: ragazze e giovani donne per proteggere la loro verginità, giovani uomini per controllare il loro desiderio sessuale. In Africa la fecondità è un valore primario, perché genera la vita, e la castità è un valore in quanto protegge la vita e la qualità della vita, la quale è concepita come un legame diretto tra i vivi e i morti. La sessualità è considerata moralmente neutra e, di per sé, né buona né cattiva. Spesso viene paragonata al fuoco in una casa. Il fuoco può essere domato e usato per cucinare; in caso contrario, può bruciare il tetto e l'intera casa"8.

Con ciò non si vuole presentare una visione idilliaca della cultura africana, che non risponderebbe alla situazione reale, nella quale si riscontrano tabù e pratiche contrarie al rispetto della persona, soprattutto della donna. Si intende solo mostrare la complessità di un panorama profondamente diverso da quello occidentale, che richiede, pertanto, strategie diverse. In questa prospettiva, lottare contro il SIDA trasferendo tout court il paradigma occidentale della "non interferenza" sui comportamenti e puntare esclusivamente sui mezzi tecnici, che invece la cultura africana tende a guardare con estraneità, rischia di diventare una nuova forma del deprecato colonialismo, questa volta sanitario, più sottile e più difficile da riconoscere, perché mascherato da motivazioni di aiuto umanitario9.

Occorre riscoprire il contenuto "umano" delle tradizioni dell'Africa, un patrimonio troppo spesso trascurato dagli studi e dalle analisi attuali, per tentare una comprensione più profonda dei problemi, prima di formulare strategie. Bisogna, infatti, tener conto del fatto che promuovere la salute significa anche promuovere una trasformazione nella cultura e negli stili di vita. Ma si può trasformare positivamente solo ciò che si è compreso, altrimenti si corre il rischio di annientarlo o di pervertirlo. Pertanto, questo sforzo di comprensione richiede un atteggiamento di giudizio critico nei confronti dei modelli di promozione della salute adottati, per riconoscerne pregi e limiti.

Si tratta di una riflessione necessaria, visto che qualsiasi approccio al SIDA sottintende un diverso modello di sviluppo, da cui dipenderà una specifica impostazione dei trattamenti e della prevenzione. É inoltre evidente che ogni modello di sviluppo s'inquadra in un'antropologia di riferimento, ossia in una determinata visione dell'uomo, della sua natura e del senso della sua esistenza.


PARADIGMI DI SVILUPPO E MODELLI DI PROMOZIONE DELLA SALUTE

In ogni concezione di sviluppo appare fondamentale la distinzione e il tipo di relazione che si introduce tra natura e cultura. Quando si afferma che l'uomo è un essere culturale, ci si riferisce al fatto che tutte le realtà, naturali e ambientali, che lo riguardano, vengono assunte dalla sfera della liberta, interpretate e rielaborate, acquistando nuove potenzialità e significati10. Ogni cultura si costituisce grazie ad una lingua, ad un insieme di costumi e ad un sistema di valori, di cui è elemento essenziale la religione. Per sistema culturale globale s'intende non solo l'insieme degli elementi costitutivi di una cultura, ma anche le dinamiche che la governano, sia interne che esterne. La configurazione generate di questo sistema, o identità culturale, che determina la differenza tra le culture, si deve alla scala gerarchica di valori adottata. Contrariamente all'opinione comune, non sono i valori a differenziare le culture, perché esiste un'analogia impressionante, quanto piuttosto la diversa priorità ad essi assegnata in ciascuna cultura11.

È pertanto possibile rinvenire, nella pluralità dei sistemi culturali, qualche invariante, ossia delle costanti, che costituiscono altrettanti manifestazioni innegabili dell'attività comune dello spirito umano e dell'apertura dell'intelligenza alla realtà. Come nota l'antropologa F. Héritier, non esiste nessun sistema di rappresentazione, anche primitivo e apparentemente irrazionale, che non sia di fatto un atto di ragione, fondato, se non su sperimentazioni, perlomeno su osservazioni, da cui vengono tratte interpretazioni e conseguenze logiche. Molte rappresentazioni culturali apparentemente irrazionali, in realtà, nascono all'interno di una logica, che va riconosciuta e ricondotta al terreno comune dell'intelligenza umana nella sua originaria apertura al mondo12.

Le culture sono essenzialmente dinamiche, per la spinta innovativa dovuta al confronto con altre culture e con l'ambiente. In questo processo di rinnovamento, la distinzione tra mutazione e mutamento può aiutare a comprendere meglio il senso della promozione dello sviluppo13. Mutazione è un sovvertimento del sistema culturale, che può comportare la perdita dell'identità, mentre mutamento è l'adattamento al nuovo, ma integrando questa novità nella propria configurazione culturale, che ne risulta conservata e arricchita14. È di fondamentale importanza tuttavia chiarire che non ogni mutazione è necessariamente negativa, perché può comportare una riconfigurazione positiva di un sistema culturale, come nel caso di tante fusioni culturali avvenute nella storia (si pensi, ad esempio, al fenomeno del meticciato in America latina)15.

Quali elementi consentono di distinguere tra snaturamento culturale e riconfigurazione positiva? Qui l'argomentazione non può che essere di carattere etico: per non cadere nel neotribalismo, ossia nell'impossibilità delle culture di influire positivamente le une sulle altre, o nella ghettizzazione, volontaria o involontaria che sia, bisogna ammettere un limite al riconoscimento del diritto alla differenza culturale. Esso non risiede nei valori di una cultura-paradigma, che pretenda di affermarsi come superiore riguardo alle altre, ma nel comune riconoscimento della dignità della natura umana. Se tutte le culture sono forme espressive dell'humanum, bisognerà riconoscere come valore culturale ciò che assicura il rispetto di questo humanum e come un disvalore ciò che finisce per negarlo16.

Applicando queste nozioni allo sviluppo, è evidente che avremo tante concezioni di sviluppo e della correlata promozione della salute, quante concezioni di rapporti tra culture. Se la natura umana si dovesse considerare un "paradigma perduto", secondo l'espressione di E. Morin, il discorso sui significati di corpo, salute e malattia resterebbe ingabbiato all'interno delle differenze culturali e risulterebbe impossibile offrire qualsiasi tipo di aiuto a partire da un altro sistema culturale. Al contrario, per quanto ogni realtà sia compresa entro determinati sistemi di rappresentazione, dai quali risulta inseparabile, la dimensione universale di certi fenomeni ci rimanda ad un fondamento umano comune. Se pretendere di ritrovare la natura al di sotto della cultura, come se si dovesse compiere un percorso a ritroso, non avrebbe alcun esito, perché tutte le manifestazioni dell'esistenza umana sono essenzialmente culturali, tuttavia l'umano si può riconoscere dentro la cultura, come l'orizzonte entro il quale esso si realizza adeguatamente.


DUE MODELLI INSUFFICIENTI: LO SVILUPPO DISINTEGRATO E LO SVILUPPO INTEGRATO

Sulla base di una diversa visione dell'uomo e dei rapporti tra le culture, è possibile distinguere altrettanti modelli di sviluppo più o meno adeguati, che hanno come effetto strategie sanitarie più o meno efficaci.

Con la denominazione di sviluppo disintegrato si può indicare:

"quel processo di trasformazione messo in atto da dinamiche esterne, attraverso le quali elementi nuovi vengono introdotti in un sistema culturale senza contemplarne alcun tipo o livello di integrazione, ritenendo che essi produrranno esiti senz'altro positivi per effetto cumulativo e in base alla loro intrínseca 'bontà' e alla loro 'superiorità' nei confronti degli analoghi elementi interni, avendo come termine di riferimento di giudizio esclusivamente il sistema esterno dal quale essi sono mutuati"17.

Se è evidente che si tratta del modello adottato dal colonialismo classico, forse non è altrettanto evidente che questo modello si riflette anche in molte delle strategie sanitarie adottate dal mondo occidentale nei confronti del SIDA, che, d'altra parte, cominciano in qualche caso ad essere oggetto di revisione da parte degli stessi promotori18.

Tali strategie, infatti, partono da una visione esclusivamente biomedica della malattia, che è considerata come una patologia da combattere con i soli mezzi tecnici. Il paradigma biomedico, adottando il modello esplicativo della relazione diretta ed esclusiva tra causa ed effetto, accertata tramite analisi cliniche e affrontata attraverso terapie farmacologiche, finisce per ignorare la complessità del processo causale nell'insorgenza di una malattia, che invece è presente anche nel caso di una patologia epidemica.

Se si ha a che fare non con malattie, ma con persone malate, vige quanto ha osservato il filosofo H. Jonas:

"L'arte medica non è la semplice applicazione di un univoco sapere su di un univoco materiale per un univoco scopo, come fa ad esempio il costruttore di macchine applicando in modo pressoché meccanico la scienza della meccanica al suo compito prestabilito. Infatti il medico ha a che fare di volta in volta con il singolo caso, con l'individuale in tutta quella sua unicità e complessità che nessun inventario analitico può spiegare fino in fondo; e sin dal primo passo, già nella diagnosi, intesa come sussunzione del particolare sotto il generale, è necessario un sapere del tutto diverso rispetto a quello teorico"19.

Il paradigma biomedico, insufficiente a comprendere la differenziazione del fenomeno SIDA, risulta pertanto anche inefficace, se non si combina con un modello che potremmo definire bio-socio-esistenziale, finalizzato a comprendere le cause profonde e ad orientare in una diversa direzione gli stili di vita. Senza nulla togliere alla necessità dell'intervento farmacologico, è necessario uno sguardo più ampio sul fenomeno, per non precipitare dall'alto una soluzione inadeguata forse in ogni caso, ma ancor di più in relazione al sistema culturale africano. A proposito, ad esempio, dell'esclusivo ricorso ai mezzi farmacologici, è stato osservato che essi appartengono ad una categoria occidentale di soluzioni, alla cosiddetta "cultura dei medicinali", che affronta la sofferenza e le malattie dell'uomo in chiave biomedica o tecnologica, senza tener conto anche del contesto culturale locale e delle aspettative della gente. A questo proposito, Michael Czerny riporta due osservazioni interessanti: "Ho vissuto quindici anni in sei diversi Paesi africani — racconta un medico missionario americano — e ho imparato che il modello biomedico occidentale non dà tutte le risposte". "Nella 'buona tradizione africana — spiega un teologo — la medicina ha bisogno del calore della comunità ed è questo che aiuta i pazienti a guarire o a resistere nella sofferenza"20.

Un'esigenza fondamentale per l'essere umano è, secondo una nota espressione dell'antropologia, quella di "dare un senso all'avvenimento puro"21, ossia, nel caso della malattia, di interpretare il malessere biologico alla luce della propria situazione culturale e della propria rete relazionale, costruendo, in questo modo, un modello di rappresentazione. Non è possibile prescindere da questi modelli, sia nella clinica che nella prevenzione, imponendo tout court una logica differente. Per questo motivo, nello sforzo di promozione della salute nei paesi in via di sviluppo esiste un'unica alternativa: o costringere, imboccando la strada più sbrigativa, anche se mascherata, all'imposizione di una logica estranea oppure, al contrario, convincere, tentando una mediazione che valorizzi gli elementi comuni, quell'humanum, che è il sostrato delle culture.

Interessante è la proposta interpretativa di Edward Green, medico e ricercatore presso l'Harvard Center for Population and Development Studies, che suggerisce di ripensare il SIDA22. La tesi centrale del suo saggio è che le misure nei confronti del SIDA sono state programmate alla luce di un modello epidemiologico di trasmissione della malattia elaborato nei Paesi sviluppati, soprattutto negli Stati Uniti. Questo paradigma occidentale di trasmissione, designato come "paradigma I", è centrato sulle cosiddette categorie a rischio, come omosessuali e tossicodipendenti. Le misure più appropriate per ridurre il rischio, in questo caso sembrano essere l'uso del condom e la terapia farmacologica con antiretrovirali. Ma secondo Green, se invece ci si riferisce ai Paesi in via di sviluppo, inclusa l'Africa sub-sahariana e i Caraibi, questo modello appare inadeguato, perché l'epidemia si diffonde fondamentalmente attraverso la trasmissione eterosessuale, che egli designa come "paradigma II" e che richiede un approccio ben diverso.

Green osserva che l'esclusiva applicazione del "paradigma I" è all'origine del fallimento di gran parte di quelle strategie sanitarie perseguite in Africa, che non tengono conto dei fattori socioculturali e assegnano una priorità a risorse che non rispondono alle reali esigenze di salute dei popoli africani. Si possono produrre allora autentiche situazioni paradossali: in un Paese come l'Uganda, con una spesa sanitaria annua pro capite di 13 $, dove diarrea e malaria sono endemiche, una madre che deve percorrere varie miglia per ottenere un antipiretico per il figlio malato non giudicherà mai prioritaria l'offerta del condom, che per giunta evoca nell'africano lo stigma del sesso a pagamento23.

Questa inadeguatezza del paradigma adottato spiegherebbe, secondo Green, come mai lo Zimbabwe, il Paese africano che registra la più elevata distribuzione di condom, sia anche quello con il tasso di sieropositività più alto nel mondo (24, 4%). Il ricercatore sottolinea anche che la terapia antiretrovirale, se non è accompagnata da un programma adeguato di educazione alla salute, risulta impraticabile o inefficace, anche nel caso che le industrie farmaceutiche abbattessero i costi dei medicinali24.

A fianco al modello di sviluppo disintegrato, il cosiddetto modello integrato presenta anch'esso limiti evidenti. Con questa denominazione s'intende un processo di mutamento culturale con le seguenti caratteristiche:

"indotto da dinamiche sia interne che esterne, nel quale l'integrazione degli elementi esogeni e dei processi da essi messi in atto viene teorizzata e pianificata soltanto a livello orizzontale, in riferimento alle strutture e ai sub-sistemi direttamente interessati, ma non in senso verticale, in riferimento alla configurazione culturale generale, al sistema di pensiero, ossia al sistema culturale globale"25.

A questo modello si possono ricollegare le posizioni della cosiddetta antropologia critica della salute che fanno leva sulla categoria di "violenza strutturale" e di "sofferenza sociale". Esse pongono la questione della promozione della salute essenzialmente in termini di empowerment sociale ed economico26. In questa prospettiva, la malattia viene considerata come "un processo sociale che s'iscrive nelle vicende individuali principalmente attraverso le limitazioni esercitate sulla loro capacità di azione"27. Questo approccio ha il merito di additare dei fattori che indubbiamente hanno una reale e forte incidenza sulle dinamiche della sofferenza umana, come la povertà, il mancato rispetto dei diritti e la disuguaglianza di genere. È vero che la sofferenza individuale può trasformarsi in sofferenza di un intero popolo discriminato, di una nazione oppressa, di una categoria resa particolarmente vulnerabile, tanto da poter essere definita una "patologia del potere". Tuttavia, tale impostazione risente della distinzione marxiana tra la struttura socioeconomica e la sovrastruttura culturale, dove sarebbe sempre la prima a determinare la seconda. C'è invece da obiettare che se s'intende trasformare le strutture in modo definitivo, si devono favorire le risorse interne, ossia i sistemi di valori, che solo un'educazione può orientare e potenziare.

Per promuovere un autentico sviluppo, pur essendo indispensabile intervenire sulle strutture che provocano ingiustizia, bisogna anche adoperarsi perché siano le culture stesse a ritrovare le proprie energie, grazie all'educazione individuale. In caso contrario, si rischia di realizzare una liberazione senza libertà, ossia di offrire un potere senza favorire la consapevolezza degli scopi e dei limiti che ogni potere porta con sé.


IL MODELLO DI SVILUPPO INTÉGRALE E LA LOTTA CONTRO IL SIDA

Il paradigma di sviluppo integrale o multidimensionale si fonda su un'antropologia globale e su di una concezione completa della cultura. Con esso s'intende quell'insieme di cambiamenti attuati con progetti di sviluppo, che integrano elementi nuovi -endogeni ed esogeni- sia in senso orizzontale, migliorando i subsistemi -ad esempio, l'organizzazione scolastica o sanitaria- sia in senso verticale, a livello di sistema culturale globale, migliorando lo stesso stile di vita e il sistema di pensiero28. Con parole di Benedetto XVI nell'Enciclica Caritas in Veritate: "La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l'uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo"29.

Questo modello accompagna una concezione pluridimensionale di assistenza e di promozione della salute. Se si parte dall'idea dell'unità e della complessità della persona, nelle sue dimensioni fisiche, psichiche e spirituali, per cultura s'intenderà un sistema che ha come elementi costitutivi la dimensione valoriale e quella religiosa. Una promozione della salute collocata in questa prospettiva non solo non potrà ignorare quei valori della sessualità e della famiglia presenti nella migliore tradizione africana, ma dovrà orientarsi a consolidarli attraverso uno sforzo di prevenzione.

Giovanni Paolo II, in un documento di carattere pastorale del 1995, disegnava un significativo quadro antropologico dei caratteri della tradizione africana, pur senza idealizzarla:

"Gli Africani hanno un profondo senso religioso, il senso del sacro, il senso dell'esistenza di Dio creatore e di un mondo spirituale. [...] Nella cultura e nella tradizione africane, il ruolo della famiglia è universalmente considerato come fondamentale. Aperto a questo senso della famiglia, dell'amore e del rispetto della vita, l'Africano ama i figli. [...] I popoli dell'Africa rispettano la vita che viene concepita e nasce. Gioiscono di questa vita. Rifiutano l'idea che possa essere annientata, anche quando a ciò vorrebbero indurli le cosiddette "civiltà progressiste". E le pratiche ostili alla vita vengono loro imposte per mezzo di sistemi economici al servizio dell'egoismo dei ricchi. Gli Africani manifestano rispetto per la vita fino al suo termine naturale e riservano in seno alla famiglia un posto agli anziani e ai parenti. Le culture africane hanno un senso acuto della solidarietà e della vita comunitaria. Non si concepisce in Africa una festa che non venga condivisa con l'intero villaggio. Di fatto, la vita comunitaria nelle società africane è espressione della famiglia allargata"30.

Una strategia di promozione della salute, pertanto, è efficace solo in quanto rispetta il sistema culturale su cui deve influire. L'attenzione va focalizzata sulla persona e non solo sul trattamento sanitario, mediante una lettura multidimensionale dei problemi: cercherà di orientarsi alla comprensione dei comportamenti e al miglioramento degli stili di vita.

Come è stato notato, il concetto di Health-field, campo sanitario, introdotto da Marc Lalonde nel 1974, pur datato, resta per molti aspetti un modello interpretativo ancora valido, che ha consentito di riconoscere come l'ambito della salute non coincida mai esattamente con l'assistenza sanitaria né si debba esclusivamente ad essa31. Il modello del "campo sanitario", diviso in quattro quadranti -la biologia umana, l'ambiente, lo stile di vita, l'assistenza sanitaria-, consente di valutare il peso di ciascuno di questi elementi nell'insorgenza e diffusione di una malattia e, di conseguenza, nella promozione della salute. Secondo Lalonde, all'assistenza medica spetterebbe solo il 10%, all'ambiente e alla biologia il 20% ciascuno, mentre invece il 50% dell'incidenza si deve agli stili di vita e ai comportamenti. Sebbene il tutto non si possa ridurre aritmeticamente alla somma delle parti, bisogna ammettere che il concetto di campo sanitario offre una prospettiva multifattoriale, di tipo olistico, che consente di riconoscere le dimensioni culturali, sociali ed etiche di una malattia, quindi della promozione della salute, senza il pericolo di ridurle alla semplice dimensione biologica.

Per applicare tutto ciò al fenomeno SIDA, va compreso che questa pandemia in Africa è parte di uno scenario più ampio di malfunzionamento e di sofferenza dal quale non può essere isolata. Per chi vive in un contesto in cui spesso neppure le necessità più urgenti -di acqua, di cibo, d'igiene- sono soddisfatte adeguatamente, la terapia farmacologica contro il SIDA risulta primaria, ma non essenziale. L'alimentazione di base, la sicurezza alimentare, l'acqua potabile, le cure sanitarie fondamentali, l'istruzione primaria accessibile a tutti, l'occupazione e la sicurezza rappresentano quelle necessità primarie che non possono essere ignorate e che vanno promosse assieme o forse più delle strategie biomediche, se si intende sconfiggere realmente la malattia. Non bisogna dimenticare che, mentre nel mondo sviluppato la salute si sta progressivamente trasformando in un bene di consumo, nel cosiddetto Sud del mondo essa è una questione di giustizia, perché rientra nel più ampio diritto alla vita. Tutto ciò non solo non esclude, ma rende più urgente anche la questione dell'accesso ai farmaci -in questo caso agli antiretrovirali- che risulta indispensabile per un'autentica promozione della salute.

Un'altra dimensione essenziale è costituita dall' educazione e dalla formazione morale verso la responsabilità e la prevenzione. Il caso dell'Uganda è molto significativo. Dal 1990, la lotta al SIDA condotta sotto il governo del presidente Yoweri Museveni e da sua moglie Janet ha prodotto una diminuzione del tasso di positività dal 15% al 4,1%. L'approccio adottato è noto come "ABC approach", dove A sta per Abstain, astieniti; B per Be faithful, ossia sii fedele al partner; C per Condom, considerato la risorsa estrema, all'ultimo posto nella lotta alla malattia. Mentre il medicalizzato modello occidentale è piuttosto costoso, il modello ABC ha un costo modesto e risponde ad una visione integrata di sviluppo, perché non comporta mutazioni culturali, bensî fecondi mutamenti, nel senso che orienta gli stili di vita, responsabilizzando le persone nella direzione della salute e rafforzando le migliori tradizioni familiari locali32. Alcuni articoli scientifici apparsi negli ultimi due anni hanno confermato la validità di tale modello33. Si è ad esempio sottolineato che, grazie a questo modello, tra il 1989 e il 1995 in Uganda si è verificata una riduzione del 60% delle persone che dichiaravano di aver avuto rapporti occasionali nell'anno precedente, sia fra le popolazioni urbane che tra quelle rurali, mentre nel Malawi, nello Zambia e in Kenya la percentuale era molto più elevata. "Benché fosse aumentato dal 1989, il tasso di utilizzo del condom nei rapporti occasionali nel 1995 in Uganda non era sostanzialmente differente da quello degli altri africani. Invece la percentuale di giovani fra i 15 e i 19 anni che si astenevano dal sesso era più alta, essendo cresciuta sostanzialmente fra il 1989 e il 1995. Questi dati suggeriscono che la riduzione del numero dei partner sessuali e l'astinenza fra i giovani non sposati (particolarmente maschi nelle aree urbane) anziché l'uso dei condom sono stati i fattori rilevanti nella riduzione dell'incidenza dell'HIV"34.

Dal punto di vista delle strategie terapeutiche, è fondamentale anche la comprensione della dimensione relazionale della persona, che consente di passare dalla semplice assistenza al trattamento, al care, oltre che al cure. Come nota P. Donati, assumere un modello relazionale in medicina comporta tener conto di tre aspetti: che la realtà che s'intende comprendere è un "intero", non come totalità a priori, ma come il risultato dell'intrecciarsi delle relazioni; che il soggetto ha un ruolo centrale nella medicina, sia esso medico o paziente; che la malattia non è solo un insieme di sintomi, ma un insieme di significati che vanno riconosciuti e compresi in vista di una cura efficace35.

Con parole del medico umanista spagnolo Pedro Laín Entralgo:

"Migliaia di volte è stata proclamata la sentenza: "non vi sono malattie, ma malati". Sarebbe meglio dire: "Vi sono malattie in malati". Le "malattie", le "specie morbose" sono reali, ma lo sono nel malato della cui vita e realtà fanno parte. La malattia individuale è quasi sempre il risultato dell'individualizzazione di una specie morbosa. Ebbene, come diventa reale questa "individualizzazione" della malattia? Come, di conseguenza, dovrà essere "individuale" la diagnosi?"36.

Laín Entralgo allude efficacemente a una dialettica di opacità e trasparenza che caratterizza la realtà della malattia in quanto realtà umana e, dunque, anche la strategia della cura.

"Dal punto di vista del loro significato biografico, tutte le malattie sono allo stesso tempo "opache" e "comprensibili", alcune molto opache (una febbre tifoidea, una neoplasia), altre molto comprensibili (una nevrosi da situazione). Tuttavia, anche le malattie più opache possiedono sempre nella loro struttura qualche momento psicologicamente comprensibile, mentre in fondo a quelle più comprensibili fluisce sempre una vena di cosmica opacità. É una conseguenza della realtà della vita umana, sia nel caso del malato (realtà malata, trasparenza ed enigma dell'ammalarsi) sia nel caso del medico (realtà conoscente, potere e limiti del conoscere)"37.

La configurazione particolare di qualsiasi quadro sintomatico mostra con grande eloquenza che ogni malato è una realtà personale, che, in quanto intelligente e libera, compie sempre un processo di appropriazione delle sue esperienze, strutturandole nella propria biografia in modo del tutto originale. La malattia, dunque, non è, come affermava il determinismo della gnoseologia biologica di Claude Bernard, il risultato necessario della combinazione di una causa esterna (germe patogeno, agente fisico, ecc.) con una causa interna (costituzione specifica del soggetto). Vi è sempre un margine d'imprevedibilità, che conferisce ad ogni quadro clinico un'originalità innegabile. Ad esempio, anche se il quadro clinico di un'infezione è riconoscibile e prevedibile, la sua configurazione e la sua manifestazione espressiva dipenderanno sempre dal chi del malato, dalla sua condizione, dalla sua personalità, in definitiva dalla sua libertà.

É più adeguato, pertanto, considerare il binomio salute/malattia come una "relazione sociale di valore": la salute diviene una condizione vitale complessiva, che consiste in una relazione sociale adeguata di un soggetto con il suo ambiente, mentre la malattia è l'alterazione dell'equilibrio di queste relazioni. Il confine tra normale e patologico sarà dunque basato senz'altro su parametri oggettivi, ma anche su come il soggetto comprende se stesso in rapporto al proprio sistema di relazioni. La medicina non sarà da intendersi soltanto come semplice prescrizione e terapia, ma come una relazione curativa vera e propria, nella quale il malato è agente-in-relazione-con, costituendo con il medico e i propri familiari una "comunità discorsiva"38.

Assegnando il primato all'educazione, senza nulla togliere alla profilassi, si può realizzare un'azione di sviluppo più efficace e rispettosa delle culture locali. Strano a dirsi, ma si tratta di un modello che trova parecchie resistenze nella cultura del mondo occidentale, per cui è più facile ottenere finanziamenti per realizzare una sala operatoria piuttosto che per la formazione degli infermieri, cosî come è più semplice costruire una scuola che istruire gli insegnanti.

La strategia dello sviluppo è dunque inseparabile da un'etica dello sviluppo che, a sua volta, poggia su una precisa visione della natura e della dignità della persona umana. La tentazione efficientistica degli standard e degli indicatori può sfigurare la dimensione radicalmente etica di un lavoro che deve tendere non soltanto a sradicare una malattia, ma indurre stili di vita sani e salutari. In questo modo, l'etica dello sviluppo si pro lunga in una pedagogia dello sviluppo, che va realizzata facendo leva su quanto di più valido esiste nella tradizione locale. In caso contrario, il rischio è ottenere risultati di scarsa durata, senza riuscire a riconoscere la ricchezza di tante culture che sono distanti dalla nostra solo in apparenza.


2 Cfr. Sontag S. Illness as Metaphor and AIDS and its Metaphors. London: Penguin Group; 2002 [orig. 1978]. Concordo comunque con l'autrice, quando afferma che il metaforizzare una malattia non deve trasformarsi in una colpevolizzazione o determinare un insufficiente ricorso alle terapie più adeguate.

3 Grmek M. SIDA. Storia di un'epidemia attuale. Roma-Bari: Laterza; 1989. p. 145.

4 Cfr. Héritier F. Il male invisibile. Antropologia della malattia e meccanismi di esclusione. Città di Castello: Ei Editori; 2002. p. 46-47.

5 Cfr. Cfr. Lütz M. La religione della salute e la nuova visione dell'essere umano. In: Sgreccia E., Carrasco I., editors. Qualità della vita ed etica della salute. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana; 2006. p. 128.

6 Cfr. Bernardi B. Africa. Tradizione e modernità. Roma: Carocci; 2001. p. 12, p. 105.

7 Cfr. Ivi, pp. 80-81.

8 Cfr. Czerny M. F. AIDS: la maggiore minaccia per l'Africa dai tempi del traffico degli schiavi. La Civiltà Cattolica. 2006; 274: 43.

9 Cfr. Bonfanti P., Rizzardini G. Infezione da HIV: la storia di una pandemia. In: R. Casadei editor. Gli occhi di Irene. Milano: Guerini e Associati; 2006. p. 114.

10 Cfr. Lombo J. A., Russo F. Antropologia filosofica Un'introduzione. Roma: Edizioni Università Santa Croce; 2005. p. 213.

11 Cfr. Volpini D. Antropologia e sviluppo. Linee epistemologiche per un'antropologia dello sviluppo. Bologna: CUAMM;1992. p. 116-119.

12 Cfr. Héritier F., Il male invisibile, cit. p. 18-20.

13 Cfr. Balandier G. Le società comunicanti, Roma-Bari: Laterza; 1973. p. 159.

14 Cfr. Volpini D. Antropologia e sviluppo. cit. p. 120-121.

15 F. D'Agostino cita come esempio di depurazione di una cultura la decisione degli inglesi di proibire in India, nel 1829, il suttee, cioè l'usanza del rogo della vedova sulla pira destinata a bruciare le spoglie del marito (Cfr. D'Agostino F., Pluralismo culturale e universalità dei diritti. Acta Philosophica. 1993; II: 228).

16 Cfr. Ibi. p. 223-224.

17 Volpini D. Antropologia e sviluppo, cit. p. 130.

18 Non a caso, il documento sul SIDA approvato al termine della sessione speciale dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 25-27 giugno 2001 contiene un lungo preambolo in cui si delinea un quadro di azione globale di prevenzione dell'epidemia, che fa riferimento non soltanto a misure sanitarie, ma anche alla lotta alla povertà, all'emancipazione femminile, alla questione dei diritti umani (Cfr. Maciocco G. HIV/AIDS. "Crisi globale - Azione globale". Salute e sviluppo. Numero speciale AIDS. 2001; 2: 19-22).

19 Cfr. Jonas H. Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità. Torino: Einaudi; 1997. p. 110.

20 Czerny M. Antiretrovirali se possibile, ma non per forza. In: http://www.jesuitaids.net.

21 Cfr. Augé M., Herzlich C. Il senso del male. Antropologia, storia, sociologia della malattia. Milano: il Saggiatore; 1985. p. 13.

22 Green E. C. Rethinking AIDS Prevention: Learning From Successes in Developing Countries. Westport, Conn.: Praeger; 2003.

23 Cfr. Ibi. p. 93-124.

24 Cfr. Ibidem. Cfr. anche Casadei R. , Rizzardini G. La controversia del condom. In: Casadei R. editor. Gli occhi di Irene. cit. p. 116-118.

25 Volpini D. Antropologia e sviluppo. cit. p. 130.

26 Cfr. Farmer P. Sofferenza e violenza strutturale. In: Quaranta I. editor. Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina Editore; 2006. p. 265-294. Secondo Farmer, la violenza strutturale si realizza in base a tre fattori: la disuguaglianza di genere, la differenza razziale, la differenza culturale.

27 Cfr. Quaranta I. Introduzione. In: Ibi. p. XXIV

28 Cfr. Volpini D. Antropologia e sviluppo. cit. p. 131.

29 Benedetto XVI, Enclica Caritas in veritate, n. 18.

30 Juan Pablo II, Exhort. Ap. Ecclesia in Africa. 14 septiembre 1995. n. 43.

31 Cfr. Lalonde M. A New Perspective on the Health of Canadians. A working document, Ministry of Health and Welfare, Ottawa: 1974; citato da G. Mottini editor. Medical Humanities. Le scienze umane in medicina. Roma: Società Editrice

Universo; 1999. p. 232-233.

32 Cfr. Green E. C., Halperin D., Nantulya V., Hogle J. Uganda's HIV prevention success: The role of sexual behavior change and the national response. In: The Synergy Project. Washington D. C.: 2006.

33 Si veda,. ad esempio: Wilson D. Partner reduction and the prevention of HIV/AIDS. British Medical Journal. 2004; 328: 846-858.

34 Stoneburner R. L., Low-Beer D. Population-Level HIV Declines and Behavioral Risk Avoidance in Uganda. Science. 30 abril 2004: 714-718. Cfr. anche Green E. C. Rethinking AIDS Prevention: Learning From Successes in Developing Countries, cit. p. 151-162.

35 Cfr. Donati P. Salute e complessità sociale. Milano: Franco Angeli; 1986. p. 34ss.

36 Lain Entralgo P. La relación médico-enfermo. Madrid: Revista de Occidente; 1964. p. 393.

37 Ibi, p. 396.

38 Cfr. Russo M. T. Corpo, salute, cura. Linee di antropologia biomedica. Soveria Mannelli: Rubbettino; 2004. p. 55-65.



REFERENZIE

1. Casadei R. editor. Gli occhi di Irene. Milano: Guerini e Associati; 2006.         [ Links ]

2. Czerny M. F. AIDS: la maggiore minaccia per l'Africa dai tempi del traffico degli schiavi. La Civiltà Católica, 2006; 274: 41-47.         [ Links ]

3. Czerny M. Antiretrovirali se possibile, ma non per forza. In: http://www.jesuitAIDS.net.         [ Links ]

4. Donati P. Salute e complessità sociale. Milano: Franco Angeli; 1986.         [ Links ]

5. Green E. C. Rethinking AIDS Prevention: Learning From Successes in Developing Countries. Westport, Conn.: Praeger; 2003.         [ Links ]

6. Green E. C., Halperin D., Nantulya V., Hogle J. Uganda's HIV prevention success: The role of sexual behavior change and the national response. In: The Synergy Project. Washington D. C.: 2006.         [ Links ]

7. Giovanni Paolo II, Exhort. Ap. Ecclesia in Africa. 14 septiembre 1995.         [ Links ]

8. Lain Entralgo P. La relación médico-enfermo. Madrid: Revista de Occidente; 1964.         [ Links ]

9. Lombo J. A., Russo F. Antropologia filosofica. Un'introduzione. Roma: Edizioni Università Santa Croce; 2005.         [ Links ]

10. Russo M. T. Corpo, salute, cura. Linee di antropologia biomedica. Soveria Mannelli: Rubbettino; 2004.         [ Links ]

11. Volpini D. Antropologia e sviluppo. Linee epistemologiche per un'antropologia dello sviluppo. Bologna: CUAMM;1992.         [ Links ]


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