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Revista Guillermo de Ockham

Print version ISSN 1794-192XOn-line version ISSN 2256-3202

Rev. Guillermo Ockham vol.20 no.2 Cali July/Dec. 2022  Epub Aug 26, 2022

https://doi.org/10.21500/22563202.5884 

Artículo de investigación

Tracce di un irrisolto conflitto: il femminismo storico e l’invenzione dell’inconscio

Huellas de un conflicto no resuelto: el feminismo histórico y la invención del inconsciente

Traces of an unresolved conflict: historical feminism and the Invention of the unconscious

Francesca Recchia Luciani1  * 
http://orcid.org/0000-0002-4244-2849

1 Università degli Studi di Bari Aldo Moro; Italia


Sommario

Questo saggio indaga il binarismo sessuale attraverso alcuni snodi concettuali, focalizzandosi sul difficile rapporto tra il femminismo della differenza e la psicoanalisi, soprattutto intorno alla natura “sessuata” dell’inconscio come fattore politico influente. La straordinaria persistenza, a livello dell’inconscio collettivo, dell’ontologia duale eterosessuale viene analizzata nella sua evoluzione storica che va da De Gouges a Wollstonecraft, da Woolf a De Beauvoir, da Lonzi a Melandri. Il nesso utile a comprendere durevolezza e solidità dell’ontologia binaria, sia a livello conscio che inconscio, sta nell’intreccio tra l’azione politica che i movimenti femministi, dalle origini all’attualità, hanno intrapreso per rivendicare i propri diritti e la critica teorico-concettuale a quei dispositivi su cui l’organizzazione sociale e l’ordine materiale e simbolico patriarcale è stato strutturato e consolidato nei millenni, attraverso le forme del dominio maschile.

Parole chiave: filosofia; politica; psicoanalisi; inconscio

Resumen

Este ensayo investiga el binarismo sexual a través de algunos cruces conceptuales, centrándose en la difícil relación entre el feminismo de la diferencia y el psicoanálisis, especialmente en torno a la naturaleza “sexual” del inconsciente como factor político influyente. La extraordinaria persistencia, a nivel del inconsciente colectivo, de la ontología heterosexual dual se analiza en su evolución histórica desde De Gouges a Wollstonecraft, desde Woolf a De Beauvoir, desde Lonzi a Melandri. El vínculo útil para entender la perdurabilidad y solidez de la ontología binaria, tanto a nivel consciente como inconsciente, radica en el entrelazamiento entre la acción política que los movimientos feministas, desde los orígenes hasta la actualidad, han emprendido para reivindicar sus derechos y la crítica teórico-conceptual de aquellos dispositivos sobre los que se ha estructurado y consolidado la organización social y el orden patriarcal material y simbólico a lo largo de los milenios, a través de las formas de dominación masculina.

Palabras clave: filosofía; política; psicoanálisis; inconsciente

Abstract

This essay investigates the gender binary through some conceptual crossings, focusing on the difficult relationship between difference feminism and psychoanalysis, especially around the "sexual" nature of the unconscious as an influential political factor. The extraordinary persistence, at the level of the collective unconscious, of the dual heterosexual ontology is analyzed in its historical evolution from De Gouges to Wollstonecraft, Woolf to De Beauvoir, and Lonzi to Melandri. The useful link to understand the durability and solidity of binary ontology, both consciously and unconsciously, lies in the intertwining between the political action that feminist movements, from the origins to the present, have undertaken to claim their rights and the theoretical-conceptual criticism of those devices in which the social organization and the material and symbolic patriarchal order have been structured and consolidated over the millennia, through the forms of male domination.

Key words: philosophy; politics; psychoanalysis; unconscious

I prolegomeni del femminismo della differenza

A livello dell’inconscio collettivo i pilastri del binarismo -o meglio dell’ontologia duale, tutta giocata sull’alternativa tra-due, tra il maschile e il femminile, considerate come entità essenziali in sé e per sé, ipostatizzazioni che hanno obliato la propria natura strettamente naturalistico-anatomica, imponendosi come soggettività trascendenti e metafisiche- sono talmente solidi che decenni di critiche e discussioni non sono bastati a metterlo mai veramente in crisi. Il nesso utile a comprendere durevolezza e solidità dell’ontologia binaria sta nell’intreccio tra l’azione politica che i movimenti femministi hanno intrapreso per rivendicare i propri diritti e la critica teorico-concettuale a quei dispositivi su cui l’organizzazione patriarcale era stata strutturata e consolidata nei millenni, attraverso le forme del dominio maschile. A quella durata e persistenza occorreva opporre un ripensamento complessivo dell’evoluzione umana in cui storicamente si erano sedimentati rapporti di potere e gerarchie sessuali, assetti di prevaricazione maschile e modalità di assoggettamento femminile, considerate pressocché immodificabili. Tuttavia, senza il raggiungimento di una profonda consapevolezza politica che mettesse finalmente al centro dell’azione pubblicamente incisiva l’emancipazione femminile come accesso allo status di “cittadina”, come ingresso dentro gli stessi meccanismi di funzionamento della rappresentanza politica, cioè all’interno delle processualità del riconoscimento giuridico, negli apparati di produzione e riproduzione normativa, era impensabile una concreta riflessione intorno ai meccanismi con cui, socialmente e culturalmente, il sistema patriarcale si era imposto come unico modello possibile sulle vite di generazioni di donne. In breve, l’accesso all’inconscio collettivo in cui l’organizzazione sociale tradizionalmente androcentrica si era incistata, per poi riflettersi sotto forma di interiorizzazione individuale di un solo e unico modello relazionale dissimmetrico, di una sola possibile gerarchia culminante nel potere autoritario, di quell’esclusivo assetto ontologico dell’umano riprodottosi per secoli attraverso rapporti di forza, poteva avvenire soltanto attraverso la presa di coscienza politica delle donne di essere sottomesse ad esso senza mai averlo scelto, ma semplicemente trovandosi a nascere dentro quell’ordine costituito e giungendo, persino, a considerarlo -in quanto già dato- del tutto naturale.

Il modello androcentrico patriarco-coloniale conoscerà un suo primo disvelamento di valenza collettiva da parte delle donne, in grado di trascendere politicamente una consapevolezza esclusivamente individuale, quando verrà messo in discussione a valle delle ricadute rivoluzionarie dell’Illuminismo e proprio tramite il supporto valoriale di quel clima culturale ispirato a una diffusa esigenza di riconoscimento del principio dell’uguaglianza e di diritti da sempre negati. Già nel 1790, influenzato dagli ideali egalitari e libertari della Rivoluzione francese, l’ideologo antirazzista Nicolas de Condorcet, influenzato dalla colta moglie Sophie, pone con Sur l’admission des femmes au droit de cité il problema dell’esclusione delle donne dal diritto di cittadinanza, mostrando così un’aperta contraddizione all’interno della compagine degli intellettuali illuministi e dei rivoluzionari, per i quali la questione non era soltanto del tutto invisibile, ma di fatto inesistente. Ma la svolta che segna l’evoluzione irreversibile di un vero movimento emancipazionista che reclama parità e diritti delle donne arriva con il pensiero e le azioni della drammaturga Olympe de Gouges, la quale scuote la Francia rivoluzionaria con la sua Declaration des droits de la femme et de la citoyenne (1791) con cui ribalta l’assunto stesso della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 -il preteso universalismo maschile, per l’appunto-, affermando la necessità e l’urgenza di una completa equiparazione politica, sociale e giuridica delle donne rispetto agli uomini, di un loro riconoscimento in qualità di soggetti appartenenti alla polis, anche se da essa esiliate per secoli. Quel che viene discusso tramite l’approccio della rivoluzionaria è proprio il presupposto astrattamente universalistico che pretende di affermare l’uguaglianza degli esseri umani senza nemmeno nominare le donne, ma piuttosto includendole all’interno del prototipo maschile di umanità. Ella rileva, così, non solo l’incoerenza prassica, ma anche l’inconsistenza teorica del postulato egualitario che, assunto nella sua astratta genericità, finisce per non tenere in nessun conto l’esistenza stessa di ciò che in linea di principio dovrebbe riconoscere. Con il suo “manifesto” quel che De Gouges riesce per la prima volta a denunciare è che ciò che resta fuori da tutte le superfetazioni ideologicoteoriche, anche dallo spazio discorsivo più evoluto della cultura politica a lei coeva, vale a dire quella illuministica, è la vita vissuta dalle donne, con la concretezza tragica delle esperienze che esse fanno del mondo attraverso i loro corpi sempre dominati, controllati, sottoposti a un regime di strettissima sorveglianza attraverso habitus sessuali che si traducono in ruoli sociali e tradizioni culturali pressocché immodificabili, anzi da sempre fossilizzate nel mito dell’“eterno femminino”, costrutto mitopoietico di una millenaria rimozione e desoggettivazione.

E sorprende particolarmente il fatto che questa annotazione possa essere applicata parimenti alla critica che la femminista italiana Carla Lonzi muoverà, quasi duecento anni dopo, alla cultura politica marxista “rivoluzionaria” degli anni Settanta che, proprio come l’Illuminismo, era affetta da una completa miopia rispetto a quanto ella considera la prima forma umana di prevaricazione assoggettante, di gran lunga più remota di quella capitalista, che concepisce la proprietà come possesso di un altro essere umano, denegando la soggettività femminile e considerando la donna come mero oggetto appartenente a un uomo (il padre, il fratello, il marito). Insomma, De Gouges e Lonzi, a distanza di quasi due secoli, sollecitano la medesima lettura storica: vale a dire, che le due potentissime ondate “rivoluzionarie” più importanti della modernità, quella illuminista e quella marxista e comunista, che avevano condotto nel 1789 alla Rivoluzione francese e nel 1917 alla Rivoluzione bolscevica, non erano riuscite nemmeno a scalfire la più arcaica forma di sopraffazione e dominio della storia umana a causa dell’incapacità a vederla e a riconoscerla da parte delle ideologie che avevano prodotto quegli eventi rivoluzionari. Quella dissimmetria era per loro del tutto invisibile e, peggio ancora, nemmeno lontanamente immaginata come prodotto di dinamiche storico-evolutive e socio-culturali, ma molto più comodamente confusa con una datità naturale indiscutibile, un mero fatto antropologico in sé e per sé, una consuetudine sottratta alle dinamiche del tempo e dello spazio e, soprattutto, a possibili trasformazioni che sarebbero state (e saranno, e spesso sono ancora) concepite, dal posizionamento universalistico maschile, come affatto non auspicabili.

Colpisce la consapevolezza, insita nella posizione di De Gouges -autentica antesignana di quel femminismo militante che prenderà slancio solo dopo la Seconda guerra mondiale, e cioè proprio con l’avvenuto radicamento e con la progressiva affermazione dei diritti umani universali-, che solo considerando la specie umana come portatrice di differenze, e soprattutto della radicale differenza sessuale, fino ad allora anch’essa rimossa, l’uguaglianza si afferma almeno potenzialmente come valore condiviso e universalmente auspicabile. Al contrario, la pura e semplice égalité rivendicata dalla Rivoluzione francese, accanto a liberté e fraternité (ancora un riferimento alla solidarietà tra “fratelli” maschi), resta mera petizione di principio sprovvista di contenuto e concretezza senza l’indispensabile riferimento a quella metà dell’umanità per millenni oppressa dal dominio maschile. Non sorprende, dunque, che in seguito all’esplosione del Terrore Olympe de Gouges sia stata ghigliottinata per essersi opposta all’esecuzione di Luigi XVI, nonché per aver dimenticato “le virtù che convengono al suo sesso”, proprio nello stesso giorno, il 3 novembre 1793, dell’esecuzione di Maria Antonietta, cui aveva dedicato il proprio manifesto politico considerandola, malgrado l’incommensurabilità del posizionamento sociale della regina rispetto alle altre donne, vittima dell’oppressione maschile proprio come tutte quante loro (De Gouges, 2017).

L’anno dopo la pubblicazione del corrosivo programma della drammaturga francese, cioè nel 1792, a Londra viene pubblicato da Mary Wollstonecraft il saggio Vindication of the Rights of Woman, il «manifesto» in cui alcuni principi del femminismo militante prendono una forma che amplifica e rinforza le idee illuministe di Condorcet o di De Gouges declinandole per la prima volta, tramite una puntuale rivendicazione dei diritti delle donne, non soltanto come fattore essenziale e ineludibile della storia dei diritti umani universali, ma soprattutto come un passaggio fondamentale delle lotte contro tutte le forme di dominio e sopraffazione. Il femminismo di questa donna è fatto di carne e sangue, di isolamento e miseria, di marginalizzazione e di esclusione: dopo il prezzo pagato da De Gouges per la sua ribellione, le idee femministe di Wollstonecraft non equivalgono solo a una presa di coscienza teorica dell’inferiorità sociale e politica cui viene costretta la metà femminile del genere umano dall’altra metà, ma soprattutto trovano in questa donna anticonformista e ribelle l’incarnazione di come il rifiuto di quel dominio comporti scelte esistenziali che hanno un prezzo sociale molto alto. Sarà Virginia Woolf, estimatrice della tempra rivoluzionaria e anticonformistica di Wollstonecraft, ad ammirare il suo essere stata “in rivolta per tutta la vita, contro la tirannide, la legge, le convenzioni”, ovvero l’incarnazione di un modello esistenziale libero e autonomo (Woolf, 2003, pp. 97-104). Nel ritratto, riconoscente ed empatico, che Woolf dedicò nel 1929 a questa pioniera del femminismo viene esaltato quell’intreccio tra il vissuto biografico, tutto giocato sul filo della propria irrinunciabile autonomia che sfida le convenzioni del tempo storico, e il programma culturale che ambisce ad una reale emancipazione per tutte le donne. In questa trama che annoda vita e teoria, l’anticonformismo delle scelte esistenziali con l’originalità delle posizioni teoriche, che poi diverrà di frequente una caratteristica riconoscibile delle militanti per i diritti delle donne, ritroviamo quel viluppo inestricabile tra il privato e il pubblico, tra la propria singolarità e l’impegno politico per una comunità. Un altro modo per richiamare quell’annodamento, messo tanto spesso in luce dalle teoriche e attiviste del femminismo, tra un livello conscio che muove il proprio agire nella società e nella storia e un altro livello che chiama in causa l’inconscio agitando i bassifondi del proprio voler essere.

L’impegno femminista di De Gouges, di Wollstonecraft e di Woolf appare, allora, accomunato da questa attenzione peculiare alla traduzione nelle scelte e nelle prassi dell’esistenza dei principi di libertà e autonomia che ispiravano il loro impegno politico. Questa è una costante del femminismo poiché esso non è mai stato un postulato o un insieme di tesi senza conseguenze per la vita di chi le professi; al contrario, l’innesto tra vita e teoria, anzi, tra corpo e posizionamento teorico è immediato, è una corrispondenza punto per punto dell’essere-al-mondo con quanto si crede e per cui ci si impegna nella battaglia delle idee e delle rivendicazioni. D’altra parte, è la stessa Wollstonecraft a denunciare con lucida coscienza che la possibilità per le donne di sottrarsi alla condizione di minorità sociale cui le sottomette l’ordine patriarcale viene impedita dalla loro stessa incapacità a riconoscere la propria sudditanza, rendendole cieche all’oppressione subita e inducendo in loro quei comportamenti che ne rinsaldano la conformità a quella “femminilità” su cui si è istituita la loro stessa subalternità. Raccomandando l’istruzione come strada maestra per l’emancipazione umana e per la realizzazione di quei principi di libertà e uguaglianza che ella assorbe dal clima illuminista e rivoluzionario del suo tempo, e che per di più ritraduce in un’ispirazione pratica che consenta a un futuro universalismo dei diritti di ampliare la platea dei soggetti che li veicolano aspirando alla parità sociale, si augura soprattutto che le donne, attraverso l’educazione, imparino a distinguere i propri valori e i propri desideri rispetto a quelli imposti dalla tradizione patriarcale e sessista che non le considera affatto come autonomi soggetti di volontà e che prevede per loro solo un piatto adeguamento alla scala assiologica maschile (Wollstonecraft, 2008). In tal senso, comune preoccupazione delle protofemministe come De Gouges e Wollstonecraft è soprattutto quella di additare alle loro consimili un percorso fondato soprattutto sull’istruzione, la cui inaccessibilità costituiva un handicap difficilmente colmabile, che le conduca alla presa di coscienza della subalternità delle donne, vedendo in essa la sola possibilità di aprire loro percorsi agibili per l’ottenimento dei più elementari diritti di cittadinanza, basilari principi di partecipazione alla vita sociale e alla sfera pubblica.

Il XIX secolo, epoca della “prima ondata” femminista, segnerà il tempo dell’ingresso delle donne nella polis attraverso le conquiste determinate dal diffondersi del loro movimento, che agì continuativamente almeno fino alla fine della Prima guerra mondiale e che inanellò considerevoli risultati politici e giuridici in Europa e negli USA, a cominciare dal diritto di voto e dalla gestione autonoma della proprietà fino all’accesso all’istruzione superiore e a molte professioni prima precluse alle donne, ottenendo parte di quell’uguaglianza di diritti cui mirava il femminismo liberale. Il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita materiale, obiettivo invece del femminismo socialista, avvicinando le donne agli uomini realizzava una progressiva uguaglianza tra esseri umani, nella quale però intellettuali come Virginia Woolf o Simone de Beauvoir vedevano il rischio di un’omologazione al maschile. La “seconda ondata”, infatti, spostò il baricentro delle teorie femministe dalla questione dell’uguaglianza, che andava in ogni caso garantita attraverso la parità dei diritti e l’equilibrio delle condizioni materiali individuali, indipendentemente dal sesso di appartenenza, a quella della differenza sessuale che connota singolarmente e socialmente donne e uomini. Le lotte della “prima ondata”, che avevano ottenuto fondamentali diritti civili e politici e di conseguenza l’accesso alla cittadinanza delle donne, saranno tesaurizzate dalla “seconda ondata” che punterà a un mutamento culturale radicale in grado di trasformare quei vincoli imposti a chi nasce di sesso femminile con l’obiettivo di giungere a concretizzare l’uguaglianza, cui si aspira legittimamente, ma soprattutto quella libertà di scelta che dipende da una sostanziale modificazione delle condizioni materiali dell’esistenza.

L’ispirazione che Virginia Woolf riconosceva a una figura come quella di Mary Wollstonecraft non si limitava a pura e semplice ammirazione, ma piuttosto configurava l’individuazione di una linea di discendenza femminile nella storia, ancora recente, della liberazione di questa soggettività per secoli misconosciuta; ovvero, le serviva per raccontare la storia inedita, nell’affermazione di una consapevolezza di genere, di un passaggio di testimone da donna a donna che giunge a cambiare progressivamente la vita di ciascuna e di tutte, la loro condizione sociale ed esistenziale. Quando, nel 1929, Woolf pubblica l’originale «saggio narrativo» intitolato Una stanza tutta per sé, servendosi di una scrittura audace che mescola lo stile letterario e quello saggistico -poiché occorre una nuova lingua per dire quel che non è mai stato detto-, il suo desiderio è di raccontare storicamente l’assenza delle donne dalla storia umana, sia dalla scena degli avvenimenti e delle azioni documentate, sia dallo spazio creativo della letteratura. Woolf apre così la strada a quella sperimentazione che connoterà l’esperienza femminista, nuova nei contenuti e nelle forme, ed essa stessa apportatrice di grandissime novità culturali, categoriali, epistemologiche, teoriche, al punto che un’asserzione assai semplice come “se vuole scrivere romanzi una donna deve avere del denaro e una stanza tutta per sé” (Woolf, 2000, p. 8) diventa in sé un atto radicalmente rivoluzionario e antisistema. L’indipendenza economica e l’autonomia di scelta, data per scontata da sempre per gli uomini, è invece per le donne una fondamentale conquista che realizza le minimali condizioni materiali per acquisire quella padronanza di sé stesse che consenta loro di decidere della propria vita e del proprio destino, sottraendosi ad un millenario asservimento e a quella eterodirezione in cui il patriarcato le incatena sin dalla nascita. Il femminismo, fin dalle origini, è stato anche questo: la presa di coscienza che il modellamento dell’esistenza individuale da sempre reale, anzi “naturale”, per gli uomini, dal punto prospettico femminile comporta faticose conquiste ottenute solo grazie al costo altissimo di vite infelici e incompiute, rimasto per tante irrealizzabile senza molte decadi di aspre battaglie collettive per l’autodeterminazione.

Questa Virginia Woolf che, aggirandosi per le biblioteche della fantasiosa Oxbridge e constatando l’esclusione delle donne da tutti i luoghi della cultura, della sua produzione e della sua condivisione, ci induce a pensare “alla sicurezza e alla ricchezza di un sesso e alla povertà e insicurezza dell’altro” (Woolf, 2000, p. 32) non sotto forma di mero accostamento, ma piuttosto come la conseguenza di una relazione che va sempre a discapito del soggetto inferiorizzato, è la metafora del femminismo novecentesco. Un filo tenace lega, infatti, questa consapevolezza che da Woolf comincia a propagarsi verso quelle donne che perseguono sempre più intensamente il desiderio di studiare, leggere, pensare e dedicarsi alla creatività, alla cultura e all’arte, vale a dire, a quell’ambito della creatività storicamente per loro tra i più inaccessibili, e quanto affermerà, più di cinquant’anni dopo, nel 1971, Carla Lonzi quando scrive: “nel mondo fatto dagli uomini per gli uomini, anche la creatività, che è una pratica liberatoria, viene attuata dagli uomini e per gli uomini. Alla donna, in quanto essere umano sussidiario, viene negato ogni intervento che ne implichi il riconoscimento di soggetto: per lei non viene prevista alcuna liberazione” (Lonzi, 1974a, p. 63).

Tanto Virginia Woolf, quanto le femministe degli anni Sessanta e Settanta, rilevano proprio, come una conseguenza dell’assenza delle donne dai luoghi cruciali del potere, della società e della cultura determinata dall’egemonia patriarcale, il fatto di essere state a lungo consegnate a un ruolo, per dirla con Carla Lonzi (che, proprio per intraprendere un femminismo radicalmente militante, aveva abbandonato il mondo dell’arte, ove pure aveva esercitato un’influenza da protagonista in quanto critica profondamente innovativa), “esclusivamente ricettivo” rispetto alla sfera della creatività e della produzione di idee, pure spettatrici della produzione culturale e artistica maschile debitamente osannata e venerata. Mentre Virginia Woolf si chiede “chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?” (Woolf, 2000, p. 60) sta già compiendo un gesto di rottura, una rivoluzione culturale che mette in questione l’oppressione e il controllo maschile che da sempre relega le donne all’ambiente domestico, inchiodandole ai “doveri” familiari e privandole della possibilità di esprimersi estroflettendosi verso il mondo là fuori con la propria autonoma capacità di creare, di costruire, di plasmare la realtà. Il logos, la poesia, la letteratura, la scienza, l’arte sono il prodotto della libertà intellettuale, la quale, a sua volta, dipende dalle condizioni materiali d’esistenza, e sono queste che, per secoli, hanno tagliato fuori le donne dal mondo della cultura, dalla fortezza occupata da intellettuali, letterati, scienziati e artisti maschi, ed è su di esse che occorre incidere per liberare la creatività femminile. L’alibi di una supposta inferiorità intellettuale e culturale delle donne cade dinanzi alla pletora di divieti e convenzioni sociali che, per la convenienza di un sesso, continuano a costringere l’altro in ruoli subalterni e a sottostare a condizioni di dipendenza. Woolf spera davvero che a salvare le donne nel futuro sarà quella “stanza tutta per sé” in cui ogni donna potrà riappropriarsi di tutto quel che nella storia umana le è stato negato: il tempo da dedicare allo studio, la libertà di creare arte e cultura, la consapevolezza delle proprie capacità e dei propri talenti, che solo l’indipendenza economica permette di coltivare. Ma anche il tempo di esplorare il proprio sé, il proprio universo di desideri e ambizioni, il fondo inconscio del proprio essere e liberare quelle immense potenzialità sacrificate troppo spesso per il benessere altrui, dedicandosi finalmente a raggiungere la pienezza di sé, cioè alla propria autorealizzazione.

La vera e propria rivoluzione antropologica che si innesca a partire da questi posizionamenti, che hanno ormai oltrepassato la questione dell’emancipazione femminile e spingono il vento del movimento delle donne verso una concreta autodeterminazione delle loro vite, facendo emergere una soggettività femminile che sulla coscienza del proprio stato d’inferiorità storico-sociale edifica pratiche di liberazione, si compie ne Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Testo spartiacque che, apparso nel 1949, pone la questione femminile in termini filosofici evidenziando la corrispondenza tra oggettive condizioni d’inferiorità in cui le donne versano nel contesto sociale, determinate da quei rapporti di forza che le hanno escluse da un intero universo di diritti, e la loro capacità individuale di autonomizzarsi puntando a “compiersi come trascendenza”, cioè nelle forme di un’autorealizzazione trasformativa di sé e del mondo che si scioglie dall’“immanenza”, cioè dalla rassegnata accettazione della realtà cui il dominio maschile l’ha condannata. “Ogni individuo che vuol dare un significato alla propria esistenza, la sente come un bisogno infinito di trascendersi. Ora, la situazione della donna si presenta in questa singolarissima prospettiva: pur essendo, come ogni individuo umano, una libertà autonoma, ella si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere la parte dell’Altro, in altre parole, pretendono di irrigidirla in una funzione di oggetto e di votarla all’immanenza perché la sua trascendenza deve essere perpetuamente trascesa da un’altra coscienza essenziale e sovrana. Il dramma della donna consiste nella rivendicazione fondamentale di ogni soggetto che si pone sempre come essenziale e le esigenze di una situazione che fa di lei un inessenziale. Data questa sua condizione, in che modo potrà realizzarsi come essere umano?” (De Beauvoir, 2008, p. 31).

Nella coppia oppositiva l’Altro da sé dell’uomo è la donna, come radicale alterità sessuale, incarnazione di un “secondo sesso”, dopo il primo, e quindi di una categoria umana subordinata, inferiorizzata rispetto al dominante. Ridisegnare il modello antropologico prevalente, come immagina il femminismo, è la sfida che fa della donna partner dell’uomo su un piano di parità, uguaglianza e autonomia capace di liberare entrambi: “riconoscendosi reciprocamente come soggetto ognuno, tuttavia, rimarrà per l’altro un altro”. De Beauvoir preconizza nel processo di liberazione della donna, necessaria abolizione di una antica schiavitù in cui l’umanità è dominata dal maschile, l’emancipazione reciproca ed egualitaria anche degli uomini, immaginando nuove configurazioni di coppia liberate da atavici condizionamenti, poiché “quando sarà abolita la schiavitù di una metà dell’umanità e tutto il sistema di ipocrisia implicatovi, allora la ‘sezione’ dell’umanità rivelerà il suo autentico significato e la coppia umana troverà la sua vera forma” (De Beauvoir, 2008, p. 699). Sarà Luce Irigaray a ribaltare l’utopia dell’uguaglianza di De Beauvoir per affermare con forza che, poiché “lo sfruttamento delle donne è fondato sulla differenza sessuale”, esso “non può risolversi che attraverso la differenza sessuale” (Irigaray, 1992, p. 11).

Questo scarto tra le due grandi filosofe del femminismo storico è anche connesso alla vexata quaestio del rapporto controverso con la psicoanalisi, poiché se entrambe sono fortemente critiche dell’approccio prima freudiano e poi lacaniano che ha rimosso la sessualità femminile dalla fondazione del discorso psicoanalitico, omologandola a quella maschile considerata standard universalistico, De Beauvoir deplora l’incapacità di Irigaray di tirare le conseguenze del suo approccio decostruttivo restando di fatto imbrigliata, con il linguaggio e con certe derivazioni logiche, dentro le maglie strette della psicoanalisi. Entrambe avrebbero forse potuto concordare con chi ha affermato che in fondo il peccato originale del freudismo è quello di aver considerato l’isteria (derivata etimologicamente dal greco ὑστέρα, “utero”) all’origine della scoperta dell’inconscio, quasi una “madre” putativa della psicoanalisi, e cioè di aver confermato il pregiudizio della superiorità maschile e della sua egemonia antropologica e, simultaneamente, quello dell’inferiorità fisica e psichica della donna, a partire da una patologia considerata esclusivamente femminile. Tuttavia, probabilmente anche per ragioni generazionali e culturali, se per De Beauvoir lo stigma contro le donne è stato alla radice del loro addomesticamento (qui il riferimento è alla bisbetica “da domare”), laddove per lei la risposta è la “consapevolezza collettiva del problema, che è insieme una terapia e la base di una lotta” (De Beauvoir, 1980), per Irigaray l’obiettivo è davvero quello di demolire le idee di Freud e di Lacan sulla psicoanalisi femminile, ricondotta in toto all’ombra sbiadita di un derivato inadeguato della sessualità maschile autocentrata ed egemone.

Nel saggio del 1955, Dobbiamo bruciare Sade? De Beauvoir si dedica ad affrontare eticamente lo scarto irriducibile dell’intersoggettività, vale a dire, l’attrito innescato da ogni relazione tra umani, e lo fa considerando il “divin marchese” l’incarnazione della pretesa umana a universalizzare il proprio particulare, nel suo caso il piacere come massimo valore disponibile e perseguibile. La principale perversione di Sade è di natura sociale: in lui la figura del libertino scolora rapidamente in quella del despota, per il quale la soggettività altrui è oggettificata; l’altro, o l’altra, non è che una mera cosa, gli eroi delle sue opere letterarie godono della propria sfrenata fantasia sessuale su soggetti totalmente passivizzati: l’esperienza erotica diviene tirannica, il piacere una forza demoniaca esercitata in danno altrui. Il carattere dispotico di Eros, che emerge dalle opere di Sade, e che si esplica in forme ripetitive fino al parossismo, in una coazione a ripetere che invece che creare relazioni distorce il legame tra gli esseri sotto forma di alterizzazione e inferiorizzazione, non è solo l’esito di una sessualità irrisolta che misconosce la reciprocità, ma una forma di conflitto in cui l’altro/a deve essere sopraffatto, vinto da una soggettività guerriera, egoista e tirannica. Nella violenza sadica della sessualità perversa del marchese non c’è traccia dell’ambiguità dell’esperienza relazionale umana, fatta di reciprocità e dell’indeterminatezza di una mutua convenienza o di un danno patito simultaneamente, e per di più il suo è un gesto che esce dai confini dell’individualità sfidando la società intera (De Beauvoir, 2020, pp. 20-21). La morale sadiana, olisticamente legittimata dal piacere solipsistico, tirannico, crudele, pretende inoltre di autofondarsi sulla natura, invocata come sola divinità, anch’essa malvagia e violenta, dominata dalla legge del più forte che la esercita indiscriminatamente, a cui vanno a sommarsi le leggi umane, pura confermazione di questa tendenza “naturale” alla sopraffazione e alla brutalità. L’“anarchia ragionevole” da Sade vagheggiata non farebbe che assecondare la natura e soprattutto consentirebbe al libertino di agire senza subire la condanna morale e giuridica della società, poiché in fondo egli non fa che esercitare il male su chi è “naturalmente” più debole, come dimostra la sottomissione delle donne, la quale corrisponde al surplus di potenza di cui la natura ha dotato gli uomini proprio perché esse venissero assoggettate. E tuttavia De Beauvoir non biasima Sade per la sua morale mostruosa, né per il suo disprezzo sociale, poiché apprezza l’autenticità del suo interrogarsi sulla sostanza dei rapporti tra gli esseri umani: “Contro l’indifferenza, ha scelto la crudeltà. Sade ha vissuto fino alla feccia il momento dell’egoismo, dell’ingiustizia, dell’infelicità, e ne rivendica la verità” (De Beauvoir, 2020, p. 125).

Sade offre a De Beauvoir un esempio perfetto della dissociazione tra individuo e società che, sebbene in forme molto diverse da quelle subite dalle donne per secoli, riflette lo scarto e lo scontro tra le convenzioni e le aspettative della comunità e le aspirazioni e i desideri individuali. La sua monumentale opera del Secondo dopoguerra, Il secondo sesso, inaugurò, attraverso una disamina puntuale di tutte le gradazioni dello stigma e delle discriminazioni subite dalle donne, una nuova epoca della loro emancipazione, una “rivolta” dei costumi e dei rapporti che negli anni Sessanta, Settanta e a seguire avrebbe compiuto una vera rivoluzione culturale che, per quanto invisibile, si impose con tutta la concretezza di una modificazione antropologica e materiale che avrebbe trasformato le donne, gli uomini e le loro relazioni irreversibilmente.

Un difficile rapporto con la psicoanalisi: l’inconscio femminista degli anni Settanta

Gli anni Settanta in Europa e negli USA sono stati, tra le tante altre cose, anche gli anni della scoperta e dell a pervasiva affermazione del paradigma epistemologico, estetico, etico, politico e sociale della differenza sessuale. Questa autentica rivoluzione gradualmente incrina e destituisce quel modello universalistico di soggettività identificata con il maschio bianco adulto, il quale, dopo una stagione di sommovimenti e rivendicazioni lunga quasi due secoli che va dal 1792 al 1968, va incontro ad una progressiva e inesorabile erosione in quanto idealtipo concepito antropocentricamente come padrone assoluto e indiscusso del mondo e del logos. È così che il solido paradigma patriarco-coloniale, fondato cioè sulla supremazia maschile ed eurocentrica, viene minato alle fondamenta dalla scoperta da parte dell’altra metà del genere umano, quella femminile, delle profonde ingiustizie e delle dinamiche oppressive da esso incarnate, in forme talmente ataviche e irreggimentate nel tempo da essere ormai dissimulate attraverso modalità che sono sia consce che inconsce, tanto consapevoli quanto introiettate, sia razionali che irrazionali, inscritte nel corpo, nella mente, nell’inconscio degli uomini e delle donne. Questa accresciuta conoscenza di quei processi di assoggettamento, nonché la contemporanea presa d’atto della necessità di decostruirli per emanciparsi da una schiavitù mai dichiarata tale, animerà di idee e di battaglie civili la “silenziosa” e incruenta rivoluzione delle donne, una rivoluzione antropologica radicale che ribalta l’assetto natura/cultura mostrando l’origine sociale di un ordine supposto naturale. Essa, dapprima con le armi della critica illuminista, poi con le innumerevoli lotte per l’ottenimento dei diritti di cittadinanza che si scatenano nel corso di tutto il XIX secolo fino alle due guerre mondiali, infine con le rivendicazioni sessantottine che serpeggiano lungo tutti gli anni Settanta incentrate su libertà e autodeterminazione, renderà evidente quanto ormai intollerabile e insostenibile per ciascuna sia divenuta quell’antica dissimmetria di potere che ha di fatto condotto i due sessi sotto il predominio, reale e simbolico, di uno solo, istituendo un unico solitario universalismo, quello maschile.

Come ha dimostrato Pierre Bourdieu nel suo influente Il dominio maschile, la partita della prevaricazione e dell’assoggettamento si gioca in maniera assai rilevante proprio sul piano del simbolico, poiché è nell’“archeologia oggettiva del nostro inconscio” che sono venute a depositarsi quelle abitudini, credenze, rappresentazioni che hanno cristallizzato l’arbitraria distinzione tra i sessi originata da fattori sociali e culturali come un inamovibile fatto naturale, persino biologico, attraverso quello che il sociologo e antropologo francese ha definito “un lungo lavoro collettivo di socializzazione del biologico e di biologizzazione del sociale” (Bourdieu, 1998, pp. 9-10). Solo esplorando i processi e i dispositivi di naturalizzazione di quelle invarianti storiche che si mostrano come atti di sopraffazione di un sesso sull’altro, ripetuti e perpetuati nell’arco temporale dei millenni, è possibile comprendere con gli strumenti dell’antropologia, della sociologia e della filosofia che la divisione binaria dei generi sessuali e la sua enfatizzazione nella storia umana, nelle forme gerarchizzate e subordinate ben note, corrisponde a un reiterato e rafforzato meccanismo di potere coercitivo e colonizzatore che ha imposto le sue regole fino a quando le donne non hanno avuto la lucidità, acquisita attraverso l’espansione delle idee e delle teorie sui diritti collettivi, per afferrarne il significato solo impositivo e la natura violenta e per contrapporvisi con l’energia sovversiva che dava loro l’impulso e l’urgenza di conseguire una liberazione.

In questa dinamica emancipativa la dimensione inconscia coinvolta nei processi di assimilazione e introiezione da parte delle donne delle strutture del dominio maschile, sottoforma di interiorizzazione della visione androcentrica, coincide e si confonde con tale plurisecolare oppressione che, come scrive Carla Lonzi nel 1970 in Sputiamo su Hegel, “non inizia nei tempi, ma si nasconde nel buio delle origini” (Lonzi, 1974a, p. 19). Come viene nettamente evidenziato in questo testo radicalmente critico del potere riconosciuto agli uomini dalla nostra tradizione culturale, e pertanto spiazzante e disturbante, occorre rifarsi ai suoi “millenni di assenza dalla storia” per comprendere come la donna abbia incarnato l’“archetipo della proprietà, il primo oggetto concepito dall’uomo: l’oggetto sessuale”. Ciò implica che, come afferma questa animatrice del gruppo di Rivolta femminile che impose al femminismo italiano una curvatura al contempo politicamente militante e teoreticamente influente, “la donna, rimuovendo dall’inconscio dell’uomo la sua prima preda, sblocca i nodi originari della patologia possessiva” (Lonzi, 1974a, p. 22).

Il rapporto tra femminismo e psicoanalisi non è mai stato pacifico, anzi come nel 1974 ricordava Juliet Mitchell, l’autrice del celebrato La condizione della donna, nel suo secondo libro, Psicoanalisi e femminismo: “La maggioranza del movimento femminista ha identificato in Freud il nemico. Si ritiene che la psicoanalisi asserisca che le donne sono inferiori e che possono conseguire la vera femminilità solo in veste di mogli e di madri; si pensa che essa serva a giustificare lo status quo borghese e patriarcale, di cui Freud è ritenuto la personificazione”. Eppure, precisa, “il rifiuto della psicoanalisi e delle opere di Freud è fatale al femminismo” poiché “essa non è in favore di una società patriarcale, ma si limita ad analizzarne una; se ci interessa comprendere e combattere l’oppressione della donna, non possiamo permetterci di ignorarla” (Mitchell, 1974, pp. 12-13). L’autrice, già riconosciuta nel movimento come attivista femminista, invitava con queste parole a non trascurare la necessità di servirsi proprio dell’armamentario psicoanalitico per rintracciare, nelle sedimentazioni del dominio patriarcale, quei segni in grado di rivelare quanto profondo fosse il suo radicamento psichico. Un appello evidentemente avvertito come una necessità epistemologica visto che è il ribaltamento di una posizione molto condivisa in quegli anni nei movimenti femministi di tutto il mondo che imputano alle teorie freudiane-lacaniane una descrizione delle radici inconsce dell’umano tutta costruita senza alcun riguardo per la soggettività femminile, rimossa e omologata a quella maschile. Un esempio molto chiaro di questa distanza del femminismo dal discorso psicoanalitico è quanto si legge nel famoso “Manifesto di Rivolta femminile” -apparso nelle strade di Roma nel luglio 1970, firmato proprio da Lonzi, Accardi e Banotti-, in cui dall’asserzione: “Dietro ogni ideologia noi intravediamo la gerarchi dei sessi” discende come ineluttabile conseguenza un giudizio alquanto liquidatorio: “La civiltà ci ha definite inferiori, la chiesa ci ha chiamate sesso, la psicoanalisi ci ha tradite, il marxismo ci ha vendute alla rivoluzione ipotetica” (Lonzi, 1974b, pp. 14-16).

L’esigenza di un’indagine del profondo, che accomuna le varianti del femminismo nell’adesione convinta alle pratiche dell’autocoscienza, chiamava direttamente in causa i processi di interiorizzazione che avevano reso così scontato e insieme rigido il potere materiale e simbolico degli uomini nel loro rapporto con le donne. Per tutte loro, con o senza la critica alla psicoanalisi, il senso della “rivolta” era quello di giungere a scardinare incrostazioni sociali, morali, psichiche e intrapsichiche vecchie di secoli, proprio mentre gli uomini cominciano a temere quella ribellione, nello spazio pubblico condiviso e soprattutto in quello domestico privato, come una minaccia potentissima a quel potere normato e costituito rivendicato da tempi remoti come un saldo apparato di diritti indiscussi e imprescrittibili. Il femminismo lonziano, in proposito, metteva ben in evidenza come tanto il potere maschile quanto l’inevitabile conseguente dissidio uomo/donna venissero concepiti alla stregua di un “dato naturale”, che si manifesta attraverso la sempiterna “gerarchia tra i sessi ai quali viene attribuita come essenza il risultato della loro opposizione: una definizione di superiore e inferiore nasconde l’origine di un vittorioso e di un vinto” (Lonzi, 1974 a, pp. 23).

È, per la teorica femminista di Rivolta femminile, proprio a partire da quella “primitiva sconfitta” che si è insediato, come solo regime di soggettivazione, quell’assoggettamento che impone un ordine di preminenza e una struttura di potere androcentrico e patriarcale considerato naturale, ma di fatto esito di una colonizzazione sociale e culturale di metà dell’umanità da parte dell’altra metà. Non a caso la partita della riappropriazione del sé da parte delle donne, che negli anni Settanta i movimenti femministi ebbero in cima alla loro scala di priorità, fu giocata tutta sul versante del corpo, della sessualità e dell’inconscio. Infatti, è sulla base di questa architettura che articola e connette il piano biologico con la vita psichica, il desiderio con il vissuto, i ruoli sociali riproduttivi e la storica assenza delle donne dalla sfera della produzione culturale e intellettuale, che il femminismo di quella stagione interpretò e si oppose alla subordinazione femminile al dominio maschile e alla visione patriarcale del mondo impostasi come il solo universalismo storico.

Il corpo si afferma prepotentemente sulla scena teorica proprio grazie al richiamo costante e rivoluzionario che ispira teorie e pratiche dei movimenti femministi dei Settanta, il che produrrà conseguenze, dirette e indirette, anche per la riflessione filosofica contemporanea tout court, come è evidente non solo citando Luce Irigaray o Hélène Cixous, ma anche Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy e, più tardi, Judith Butler. Tuttavia, va considerato che assumere il corpo e l’esistenza incarnata come punto di partenza dell’analisi delle forme di subordinazione storicamente incistate, delle ataviche discriminazioni subite e delle eterne violenze perpetuate contro le donne è stato soprattutto un atto di realismo politico del femminismo, poiché l’equivalenza donna/corpo è in realtà del tutto congenita alle tradizioni culturali, anche le più elevate e sofisticate, innervate di patriarcato, che le donne si accingevano a decostruire dalle fondamenta in quell’epoca di rivolgimenti concettuali e politici.

A tal proposito, Lea Melandri, punto di riferimento dell’odierno femminismo italiano, ma protagonista sin da quegli anni delle battaglie per l’autodeterminazione femminile, ha affermato con chiarezza che le donne, a furia di essere state “identificate col corpo” hanno visto il corpo stesso “invadere, informare la loro identità in toto, un corpo a cui hanno dato forma le paure e i desideri dell’uomo: corpo violato, sfruttato, controllato, ridotto a funzione sessuale e riproduttiva”. L’inchiodamento al proprio corpo che la cultura dominante ha sempre visto come il tratto più connotante della soggettività della donna, assimilandola di fatto ad esso e alle sue funzioni preminenti in rapporto all’uomo, quella erotica e quella generativa, ha comportato che “ci sono voluti secoli prima che venisse riconosciuta alle donne un’anima”, al punto che, come Melandri ha buon diritto sottolinea, Otto Weininger nel 1903, in Sesso e carattere poteva serenamente sostenere che la “femmina perfetta ignora sia l’imperativo logico sia quello morale” e che mancando di “personalità sovrasensuale [...] la donna assoluta non ha Io” (Melandri, 2008).

Questo è ciò che il femminismo ha inteso per assenza della donna dalla storia dell’uomo: una rimozione violenta costituita, per un verso, da riduzionismo reificante del corpooggetto e, dall’altro, dalla sua esclusione e denegazione dall’universo simbolico e dalla sfera della produzione di senso. Come Melandri evidenzia, la presa di coscienza femminista, che pure ha caratterizzato gli anni Settanta, ha dovuto fare i conti con queste rimozioni sovrapposte operate dagli uomini e introiettate dalle donne, fatte proprie dalle dominate nelle spire di una logica perversa di sopraffazione e dipendenza che minava la loro capacità di pensarsi libere e di autodeterminarsi. Ella scrive: “Non si è parlato allora quasi mai di ‘differenza’ femminile, ma di ‘inesistenza’ con riferimento agli effetti della ‘violenza invisibile’ o simbolica, che ha portato le donne a incorporare la visione del mondo del sesso dominante, a parlare la stessa lingua, a confondere l’amore con la violenza, a mettere in atto adattamenti, assimilazione, dolorose resistenze” (Melandri, 2008).

Ciò che però nei gruppi femministi si comprese presto era che una possibile liberazione delle donne doveva prendere le mosse da mutamenti radicali di prospettiva sul sé e sulla comunità, sulla propria esistenza e su quella sociale, sul proprio corpo e su quello collettivo, sulle dinamiche profonde e inconsce e su quelle pubbliche e condivise. A ciò non era ovviamente estranea la necessità di individuare una metodologia, una strada d’accesso per conseguire un nuovo equilibrio, tutto da reinventare e ristabilire, tra pubblico e privato, tra quanto agiva a livello oscuro e inconsapevole, nel nucleo remoto dell’io e della storia, e quanto invece era ancora ascrivibile a una rappresentazione maschile stereotipata e tipizzante della donna/corpo sessuale e procreativo. Scrive ancora Melandri: “‘Riappropriazione’ del corpo in tutti i suoi aspetti -dal biologico alla vita psichica e intellettuale- significò, per il femminismo anni Settanta, partire dalla storia personale, dal vissuto, dalla narrazione di sé, per esplorare tutto ciò che la subordinazione al dominio maschile, alla sua visione del mondo, aveva comportato, come interiorizzazione di modelli, cancellazione di un sentire proprio. La critica va alle istituzioni della vita pubblica, che, sulla cancellazione del corpo, hanno costruito il loro sapere e potere” (Melandri, 2008).

Quello che inizialmente può essere apparso solo come uno slogan particolarmente fortunato -“il privato è politico”- mostrava le sue grandi potenzialità in termini di messa in discussione critica, decostruzione e sradicamento di ossificate strutture di potere di cui le relazioni interpersonali e intime mostravano di essere del tutto impregnate. In pratica, le femministe stavano traducendo in termini politici quanto troppo a lungo era stato nascosto nelle case, vissuto nel silenzio domestico, sepolto nella sottomissione quotidiana, nella sofferta docilità di un assoggettamento ereditato da un tempo così immemore che ne aveva cancellato persino il carattere di sopraffazione e prevaricazione, rendendolo “naturale”, connaturato alla gerarchia e allo squilibrio tra i sessi. La strada epistemologicamente più sicura apparve allora quella che consisteva nell’intraprendere nei gruppi femministi esperienze collettive di autocoscienza o, con una terminologia molto in voga all’epoca, di attivare la “pratica dell’inconscio”, in grado di tematizzare i vissuti personali e le questioni legate al corpo ad un livello di condivisione comune mai esperito prima. Questa via euristica e sperimentale avrebbe consentito a segmenti rilevanti del femminismo in Italia (ma tali esperienze si realizzarono anche negli USA, in Francia e altrove in Europa) di creare, nei collettivi di donne e attraverso la relazione tra esse, un ponte tra vita e riflessione, dando una risposta a quell’“indispensabilità di teoria e pratica” che ribatteva al bisogno di colmare lo iato profondo, fino ad allora invalicabile, tra “elaborazione del pensiero e trasformazione delle vite” (Melandri, 2000, p. 9).

Programma alquanto ambizioso, come appare evidente se si pensa che quella divaricazione non appariva solo storica, ma persino preistorica e dunque millenaria, poiché era il prezzo che le donne avevano pagato alla legge della forza imposta dagli uomini. Questa temporalità arcaica, persino archetipica, chiamava in causa le strutture stesse dell’inconscio in cui le subdole dissimmetrie del potere materiale si erano fossilizzate in forme apparentemente immodificabili e pertanto perfettamente naturalizzate (Bourdieu, 1998). Divenne indispensabile, pertanto, per le donne interrogare e sviscerare temi come la sessualità, il ruolo procreativo, il vissuto affettivo, la biografia personale con lo scandaglio dell’“analisi del profondo” perché, attraverso di essa, si potesse giungere a quelle configurazioni annidate nell’inconscio in grado di condizionare la loro intera esistenza. Fu chiaro finalmente che i ruoli sessuali imposti agivano profondamente e sin dal principio sulla formazione psichica e sui processi di socializzazione e di acculturazione tanto degli uomini come delle donne e che proprio per questo l’analisi avrebbe dovuto avere per oggetto soprattutto la sfera relazionale, al fine di riconoscere al suo interno le tracce profonde lasciate dall’autoritarismo patriarcale che investiva ogni aspetto della vita sociale e individuale degli uni come delle altre. La liberazione poteva avvenire solo coinvolgendo le singole soggettività attraverso cambiamenti strutturali in grado di agire per il tramite di pratiche gruppali sulla collettività tutta, perché in gioco non c’era soltanto l’autonomia delle donne, troppo a lungo rimossa, ma anche l’ormai irrinunciabile emancipazione degli uomini da modelli ereditati e da automatismi virilisti assunti come caratteristiche naturali (Melandri, 2000).

Sulle metodologie per conseguire il risultato di una vera modificazione delle vite vissute dalle donne, nella partita per la loro liberazione dagli schemi ingabbianti in cui erano state allevate per generazioni e generazioni, si consumò una rottura verticale all’interno del movimento delle donne, che pure aveva subito individuato un terreno comune di sviluppo nelle modalità gruppali dell’autocoscienza come spazio di liberazione. E la posta in gioco del progressivo distanziamento prospettico fu proprio l’accesso all’inconscio, poiché per alcune in modo più palese, per altre più oscuramente, si intuiva che la vita intrapsichica era stata colonizzata da quegli schemi dai quali si stava tentando di autonomizzarsi, da quelle catene che andavano finalmente spezzate. Ma si comprendeva anche che esse non erano più sulla superficie di quelle vite, erano piuttosto intramate con l’esperienza intima di ciascuna, si erano saldate con le radici stesse della soggettività femminile che aveva finito per considerarle come proprie, come connaturate alle manifestazioni dello stesso essere al mondo. Pertanto, per il movimento delle donne, che aveva individuato nel corpo lo snodo vitale delle contraddizioni che animavano il dissidio tra i generi sessuali, divenne centrale il tema della sessualità, tradizionale luogo di transito e di interconnessione tra conscio e inconscio, tra atto e desiderio, tra relazione e piacere, tra espansione dell’io e incontro ravvicinato con l’altro/a da sé. D’altra parte, sin dalla scoperta freudiana dell’inconscio l’ordine del discorso che lo tematizza è il medesimo di quello della sessualità, il gioco linguistico dell’uno rimanda a quello dell’altro, in un alternarsi caleidoscopico di rispecchiamenti, un incessante mise en abîme che confonde continuamente i piani di senso, per cui il senso del sesso è inconscio, e il senso dell’inconscio è il più delle volte sessuale. Su questa trama di nessi il femminismo degli anni Settanta si divise prendendo due strade: da una parte, la “pratica dell’inconscio”, dall’altra, “il pensiero della differenza”, che, all’epoca, apparvero alternative, divergenti e contraddittorie, ma che di fatto non solo condividevano il medesimo punto di partenza -la decostruzione del dominio maschile-, ma per di più miravano al medesimo irrinunciabile e improcrastinabile risultato, l’urgenza dell’autonomia femminile. E, tuttavia, la distanza tra le due metodologie non era meramente tecnica o prassica, ma si misurava su visioni essenziali del maschile in sé e del femminile in sé, nonché delle loro relazioni nel tempo storico, sostanzialmente eterogenee dal punto di vista antropologico.

Tale discordanza, che chiamava nuovamente in causa visioni incommensurabili della psicoanalisi freudiana, consisteva nel fatto che le femministe che orientavano le loro teorie e le pratiche ad esse conseguenti verso lo scandaglio autocoscienziale volto all’indagine dell’inconscio privilegiavano il soggettivismo dell’esperienza singolare come unica e irripetibile, leggendo le trame comuni come parte dei percorsi di socializzazione e acculturazione standardizzati dalla tradizione, per lo più imposti alle donne dall’autoritarismo patriarcale. Quelle invece che difendevano, dopo averla rivelata, l’irriducibile radicalità della differenza sessuale (il gruppo di Rivolta femminile e quel che si sviluppò, soprattutto a Milano, da quell’esperienza), adoperavano la specificità femminile solo come prova di un’incolmabile distanza con il maschile oppressivo, alcune anche invocando il separatismo. Queste due anime del femminismo, che si sono apertamente fronteggiate negli anni Settanta, finivano per sostenere, all’interno di quella che può essere definita indubbiamente una radicale rivoluzione antropologica, due differenti paradigmi dell’umano sessuato: da un lato, un approccio fondato sull’inconscio concepito come crogiuolo archetipico del maschile e del femminile, in cui l’intreccio originario costituiva sia la base della dominazione sessuale, che quella della condivisione tra i due sessi di fantasie ed emozioni a fondamento di un legame ambiguo tra amore e violenza riscontrabile abbastanza regolarmente nella coppia eterosessuale (Melandri, 2011); mentre, dall’altro, l’affermazione della diversità radicale tra i due sessi veniva impianta all’interno delle differenze tra corpi incarnati, delle dinamiche relazionali tra essi, dei rapporti sessuali, financo nella biologia e nell’anatomia come manifestazioni fenomenologiche di una insopprimibile differenziazione. Il punto dirimente, per questa seconda linea teorico-pratica del femminismo italiano, era la presa di distanza dalla psicoanalisi freudiana e la scoperta della “donna clitoridea” operata da Carla Lonzi in un saggio seminale del 1971 (che aveva però un illustre precedente in quello del 1970 pubblicato dall’attivista femminista radicale americana Anne Koedt, autrice di The Myth of the Vaginal Orgasm), in cui la sessualità femminile diveniva al contempo il luogo della scoperta della differenza sessuale, quindi anche delle forme plateali e subdole del dominio maschile, ma anche della sua possibile emancipazione e liberazione: l’orgasmo clitorideo veniva, così, a esplicitarsi come il nocciolo della rivolta femminile, ma anche come il motore di una rivoluzione sessuale nella vita delle donne e, di conseguenza, anche in quella degli uomini (Lonzi, 1974c).

Nel 1974 sarà Speculum. L’altra donna, di Luce Irigaray, a chiarire che la “differenza sessuale” femminile, su cui è stata operata una storica rimozione da parte della “cultura fallocentrica”, riconducendo l’alterità femminile all’Uno e al Medesimo e concependola solo come rovescio di quella maschile, è la risposta al «fallologocentrismo» che ha monopolizzato il linguaggio in chiave maschile, autoreferenziale e neutralizzante. La storia della filosofia, anzi della metafisica fallologocentrica d’Occidente, le appare costitutivamente imbrigliata in quello schema linguistico al punto che, se non le risulta difficile criticare Freud per il modo in cui ha concepito la psicoanalisi come completo assoggettamento della sessualità femminile a quella maschile, l’intera tradizione filosofica occidentale che va da Platone e Aristotele fino a Plotino, Cartesio, Kant, Hegel risulta per Irigaray segnata indelebilmente dal maschilismo sessista. Infatti, il logos occidentale è così inestricabilmente avvinto al patriarcato da essere riuscito ad esautorare ogni altra soggettività non maschile, e così ad annichilire il linguaggio, il corpo sessuato e la differenza sessuale che solo ora trova, per potersi dire, la voce dell’“altra donna”, di un’alterità femminile né speculare, né mimetica (Irigaray, 1989) Per la filosofa belga naturalizzata francese, che nel tempo continuerà a insistere sui temi della differenza sessuale, tralasciando progressivamente la divaricazione tra femminismo e psicoanalisi, nell’esperienza propria del femminile deve darsi l’elaborazione di un pensiero dell’alterità e della differenza sessuale, perché “maschile e femminile non sono in alcun caso l’inverso o il contrario l’uno dell’altro. Essi sono differenti. Questa differenza che sta fra loro è forse la più impensabile delle differenze: la differenza stessa” (Irigaray, 2008, p. 74).

È questa modificazione antropologica differenzialista difesa strenuamente da Irigaray, basata sulla rivendicazione della diversità ontologica del femminile rispetto al maschile, che è all’origine del rifiuto, da parte del “pensiero della differenza”, dell’emancipazionismo proprio del femminismo di “prima ondata”, una rottura che percuoterà il movimento delle donne soprattutto in Francia e in Italia, innescando interessanti sommovimenti e trasformazioni linguistiche e culturali. Il limite però del pensiero differenzialista sta nel richiamo al biologismo essenzialista, un inchiodamento al corporeo pre-psichico che fa della donna un soggetto ancora vincolato alla natura (il culto del “simbolico materno” vi discende direttamente), poiché questo sguardo vede i processi di socializzazione e acculturazione come subordinati a un ordine biologico che resta a fondamento del sociale. Questa posizione di Irigaray, inoltre, traccia una linea di non ritorno rispetto alla critica radicale alla psicoanalisi freudiana e lacaniana incardinata proprio sull’irriducibilità della differenza sessuale che, se all’uscita di Speculum era costata alla filosofa e psicoanalista l’espulsione dall’École Freudienne de Paris diretta da Jacques Lacan, segnerà al contempo un punto di categorica e irriducibile rottura tra le teorie femministe ispirate al “pensiero della differenza” e quelle psicoanalitiche. Con Irigaray e le sue interpretazioni circa il riduzionismo freudiano della donna all’isteria, alla procreazione, all’anatomia come “destino”, all’ansia da castrazione, all’“invidia del pene”, alla dipendenza edipica irrisolta, alla sessualità malinconica e passiva, all’“unica libido”, alla condanna alla frigidità, questa variante del femminismo dei Settanta/Ottanta compie così la sua parabola che lo conduce dalla scoperta della differenza sessuale al ripiegamento quasi asfittico intorno allo schema binario che farà dire ad una Irigaray molto più tarda “in tutto il mondo siamo sempre in due” (Irigaray, 2008).

Questa ontologia duale, persino al di là delle sue stesse intenzioni, conferma oltre ogni misura, e per di più in chiave biologistico-naturalista, il binarismo eterosessuale, rinunciando del tutto alla decostruzione critica dell’eteronormatività e non riconoscendola né in quanto intimo nucleo del dominio androcentrico e patriarcale, né come la chiave stessa della psicoanalisi freudiana e lacaniana, da cui pure intendeva discostarsi radicalmente. Occorrerà attendere tempi ben più prossimi ai nostri perché tale monopolio venga messo radicalmente in discussione, liberando la sessualità (e l’inconscio) dal dualismo della differenza, e aprendo l’una e l’altro alla molteplicità delle possibili infinite differenze.

Referenze

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Citare come segue: Recchia Luciani, Francesca (2022). Tracce di un irrisolto conflitto: il femminismo storico e l’invenzione dell’inconscio. Revista Guillermo de Ockham 20(2), pp. 271-286. https://doi.org/10.21500/22563202.5884

Disclaimer: Il contenuto di questo articolo è di esclusiva responsabilità degli autori e non rappresenta un’opinione ufficiale della loro istituzione o della Revista Guillermo de Ockham.

Redattori ospiti: Nicol A. Barria-Asenjo, Ph.D., https://orcid.org/0000-0002-0612013X

4Slavoj Žižek, Ph.D., https://orcid.org/0000-0002-1991-8415

Editor-in-Chief: Carlos Adolfo Rengifo Castañeda, Ph.D., https://orcid.org/0000-0001-5737-911X

Co-editore: Claudio Valencia-Estrada, Esp., https://orcid.org/0000-0002-6549-2638

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Dichiarazione di interessi: Gli autori dichiarano che non c’è conflitto di interessi.

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Finanziamento: Nessuno.

Received: April 18, 2022; Revised: May 05, 2022; Accepted: May 09, 2022

*Corrispondenza: Francesca Recchia Luciani. E-mail: francescaromana.recchialuciani@uniba.it

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